Letture di Dicembre 2022
Come tutti gli anni, le vacanze di Natale sono un momento speciale: ore e ore da dedicare ai libri, anche per completare le letture rimaste indietro nel marasma autunnale.
Sul fronte della narrativa del fantastico, ho fatto la mia bella indigestione con la trilogia di Hunger Games scritta da Suzanne Collins (in tre post distinti ho raccontato come mi sono sembrati il primo volume, poi il secondo e infine il terzo). Anche il Canto di Natale di Charles Dickens ha avuto diritto a un post tutto suo ed è stata una lettura natalizia e fantasy allo stesso tempo (come in effetti lo erano state le Lettere da Babbo Natale, di J.R.R. Tolkien, che avevo letto l’anno scorso di questi tempi). Mentre, per la rubrica dei “Librini”, in questo post ho parlato di un saggio piccolo piccolo come Writing for Comics di Alan Moore.
Passando a generi e a provenienze diverse, una sorpresa pazzesca è stato il volume di racconti Quella cosa intorno al collo (ed. Einaudi), della scrittrice nigeriana Chimamanda Ngozi Adichie: una rivelazione! Cioè, una rivelazione giusto per me, perché Adichie è un’autrice nota e stimata a livello mondiale; ma io ho sentito una comunione particolare con certi suoi racconti. Anzitutto mi piace questa sua scrittura articolata ma non pomposa, vi traspira l’idea di una penna che sa come muoversi e come rimanere cauta, evitando guizzi che sarebbero tranquillamente alla sua portata ma distrarrebbero dal senso più intimo delle storie. Ma soprattutto ho amato il modo in cui in alcuni racconti (solo alcuni) i protagonisti, intrappolati in situazioni opprimenti, delle quali in parte hanno decretato loro stessi l’esistenza, riescono in qualche modo a trovare una breccia, uno spiraglio che permette loro di recuperare una piccola consapevolezza. Non si tratta di storie a lieto fine, anzi spesso i finali sembrano quasi confermare una stasi immodificabile; eppure sono comunque storie in cui i personaggi recuperano qualcosa di sé che era andato perduto (fosse pure per un solo istante), e questo mi ha molto toccata.
In ambito rosa (e lo sanno anche i sassi che il rosa is not my cup of tea, ma in questo caso ne valeva la pena) ho completato la lettura della corposa trilogia Mandala Series, scritta da Monica Peccolo, con il volume Il senso del nostro amore (Linee Infinite Edizioni) che secondo me stacca di diverse lunghezze i due precedenti (Il senso interno del tempo e Il senso di una promessa). Resta il dispiacere per l’assenza di un editing severo, che avrebbe eliminato alcuni difetti formali, ma a parte questo la padronanza della storia (che è rosa ma non melensa, evviva!) e la gestione dei personaggi (inclusi i tanti comprimari) mi hanno davvero colpita. Motivazioni interiori e circostanze esterne nelle vite dei protagonisti sono ben legate fra di loro, ci sono scelte ponderate e decisioni difficili. Spicca anche l’accortezza con cui l’autrice ha descritto le ambientazioni in cui sono collocate le vicende; sicuramente ha svolto molte ricerche ed è riuscita quindi a rendere i contesti credibili e dettagliati, senza scadere nell’infodump. Chapeau.
Ho messo piede anche nel territorio del giallo deduttivo, con il mio primo Maigret: Il pazzo di Bergerac, di Georges Simenon (ed. Adelphi). Si tratta di un racconto, in origine pubblicato nel 1932, in cui il commissario si ritrova a svolgere un’indagine con una modalità insolita: costretto a letto per vari giorni, in quanto deve riprendersi da una ferita d’arma da fuoco, non può andare in giro a ficcare il naso, a osservare luoghi e persone, a porre domande. Quindi gli tocca fare tutto per interposta persona, cioè chiedendo informazioni e affidando incarichi alla moglie e a un suo amico, oppure telefonando a diversi interlocutori dalla stanza d’albergo in cui trascorre la convalescenza. Un giallo brillante, curioso proprio per questo aspetto “sedentario” che complica lo svolgimento delle indagini (finalizzate a scoprire chi sia, fra gli abitanti di un paese di campagna, l’omicida che si è macchiato di più di un delitto). Quello che non mi è piaciuto è lo stile di scrittura, strapieno di esclamazioni e di frasi sospese; a tratti l’ho trovato così irritante da farmi venire voglia di sospendere la lettura. In futuro leggerò qualcos’altro di Simenon, possibilmente qualche opera scritta un buon numero di anni dopo il 1932, per vedere se l’autore si è diretto verso un registro più pacato o se ha mantenuto questa sorta di “agitazione”.
Per ultimo, un libro a metà fra il saggio e il memoir: Il mestiere dello scrittore, di Haruki Murakami (ed. Einaudi). Non si tratta di un manuale di scrittura e non contiene suggerimenti tecnici o esercizi; semmai l’autore giapponese cerca di fare il punto sulla spinta interiore da cui la scrittura discende, sulla crescita graduale della propria arte lungo gli anni, sul bisogno di costanza purché essa non diventi una consuetudine impiegatizia che smorza l’entusiasmo e il senso di appagamento. Soprattutto, Murakami insiste molto sul rapporto fra lo scrittore e il suo impulso creativo da una parte, e fra lo scrittore e il contesto editoriale dall’altra. Riconduce così il mestiere dello scrittore citato nel titolo a una sorta di percezione interiore che attraversa vari stadi, mentre considera poco più di un orpello tutto ciò che circonda l’opera pubblicata e che non siano i lettori (quindi premi, recensioni, dibattiti, circoli letterari). È una lettura scorrevole ma un po’ retorica, talvolta direi addirittura egoriferita – però, come in qualsiasi testimonianza diretta di uno scrittore, ci sono sempre dettagli che suscitano curiosità e inducono a riflessioni costruttive.