Se volessi farmi dei complimenti da sola, direi che questa storia ha il sapore dei film di Ferzan Ozpetek, quelli surreali e agrodolci come Le fate ignoranti oppure Mine vaganti.
Situazioni, per capirci, in cui una protagonista deve prendere le misure a un ambiente umano diverso dal solito, con alcuni aspetti esilaranti e altri drammatici.
Nel caso di questo romanzo, una donna proveniente da un ambiente colto ed elitario si ritrova a doversi letteralmente sporcare le mani per fare qualcosa di molto più umile, almeno in apparenza; salvo poi rendersi conto che adattarsi a nuove situazioni e scoprirne le potenzialità, senza più adagiarsi su scelte di comodo in una comfort zone blindata, è la via per prendersi cura nel miglior modo possibile di vecchie ferite che non hanno mai smesso di sanguinare.
«Mamma, smetti di gufare.» Adele aveva portato l’asse da stiro in salotto e seguiva la conversazione, tra le camicie del marito e le felpe dei figli. «È vero, la guarigione è più lenta del previsto e la fisioterapia è dolorosa. Puoi solo insistere e…»
«Fai presto a parlare, non senti il male che sento io.»
Un atteggiamento polemico era insolito per zia Iside. Giorno dopo giorno, la frustrazione stava montando.
«Zia, in questo periodo non ti consiglierei di venire all’orto nemmeno se facessi le capriole. Le giornate sono corte, fa un gran freddo. Poi fra venti giorni è Natale, pensa a passare delle buone feste e a ricaricarti un po’. Tornerà a casa anche Mauro.»
«Oooh. Diglielo anche tu, Maddi.» Un getto di vapore sibilò dalla stirella. «Se continua a lamentarsi, la rimando a casa sua con le stampelle e i calzini antiscivolo.»
«Non ascoltarla. Io ci volevo tornare, a casa, è lei che me lo ha impedito.»
Mi guardai bene dal rimanere in mezzo all’imminente conflitto nucleare. «Io vado: mi aspettano dei colleghi per una riunione.»
«Non eri in anno sabbatico?»
«Sì, ma c’entra un convegno che si tiene a fine maggio in Irlanda. Quello non lo salto.»