Bartleby lo scrivano, di Herman Melville – Librini
Bartleby lo scrivano è un racconto lungo di Herman Melville, scritto nel 1853 e attualmente nel catalogo di qualsiasi editore (io ho scelto l’edizione Einaudi con testo a fronte), probabilmente la sua opera più nota dopo il colossale Moby Dick. Fu anche trasposto in una versione cinematografica nel 1970.
[“Librini” è una rubrichetta aperiodica di questo blog, dedicata a volumetti super-agili da leggere d’un fiato.]
[Attenzione: SPOILER! Per parlare di questo “librino”, ne riassumerò la trama. Dubito si possa parlare di spoiler per un testo che gira da 170 anni, ma non si sa mai.]
Quella di Bartleby è una storia / non-storia, nel senso che parla di un tizio che non fa nulla. O meglio, all’inizio fa qualcosina (è impiegato in un piccolo studio legale newyorkese, con l’incarico di ricopiare documenti), solo che si rifiuta di svolgere qualsiasi altro incarico che vada oltre quello a lui normalmente affidato. Questo suscita la sorpresa e l’indignazione del datore di lavoro (che è anche il narratore), eppure la mitezza di Bartleby, la sua trasparenza, la sua ferma cortesia e quasi apatia, nel rispondere “I would prefer not to” (trad. “Preferirei di no”) a qualunque richiesta, rendono praticamente impossibile reagire nei suoi confronti con la determinazione o addirittura la cattiveria che daremmo per scontate.
Dopodiché questo suo ritirarsi dal consorzio umano e dalle relative attività diventa anche più estremo: Bartleby smette di copiare i documenti, si accampa nell’edificio dove si trovava lo studio legale (che nel frattempo ha traslocato), viene portato in prigione con l’accusa di vagabondaggio, a un certo punto smette persino di mangiare. Fino all’inevitabile epilogo.
Nel suo mettere in scena un personaggio così mite e al tempo stesso così spiazzante, Melville ci conduce a empatizzare in tutto e per tutto con l’avvocato datore di lavoro dello scrivano: insieme a lui ci stupiamo e ci indigniamo per il comportamento bizzarro del dipendente, ma poi lo stupore lascia il posto al desiderio di comprensione, a volte all’incredulità, col tempo alla preoccupazione e al desiderio di poter fare qualcosa per quest’uomo che, ormai lo intuiamo, nasconde un problema, un disagio, forse un dramma.
La radice della crescente apatia di Bartleby viene spiegata, e poi solo in parte, nell’ultima mezza paginetta del racconto: prima di lavorare per l’avvocato, Bartleby svolgeva un altro impiego [non specifico quale, evitando così lo spoiler definitivo] che lo aveva portato a contatto con l’inconsistenza della vita umana stessa, con il senso estremo dell’effimero. Anni trascorsi a rendersi conto della caducità delle umane vicende e a costruire dentro di sé (seppure involontariamente) una coscienza che con il tempo diventa insostenibile.
È come se Bartleby fosse diventato il depositario di un estremo ubi sunt (quello di Seneca) il cui peso diventa tragedia. Oppure, proiettandoci nel mondo della narrativa contemporanea invece che di quella antica, come se Bartleby avesse qualcosa in comune con la protagonista de La Vegetariana, il romanzo di Han Kang (ne avevo parlato in questo post). Personaggi colpiti da sensazioni e consapevolezze che tutti noi a volte proviamo, solo che loro vi si immergono fino a esserne sopraffatti; così facendo, entrano nel mondo del perturbante e ci offrono una misteriosa e terrificante chiave di lettura del mondo.
E pensare che, descrivendoci per la prima volta lo scrivano tramite l’io narrante dell’avvocato, Melville ci aveva avvertiti: “Ancora adesso posso rivedere quella figura, così sbiadita nella sua decenza, miserabile nella sua rispettabilità, così disperata nella sua solitudine. Era Bartleby”.