Letture di Ottobre 2020
E ci risiamo. Ogni volta che mi sento sulla buona strada per mantenere fede agli impegni di lettura che mi sono autoimposta, qualcosa mi fa deragliare. Può essere un libro nuovo a cui non resisto, un intoppo nella trama di uno dei romanzi, una semplice distrazione dal quotidiano. E quindi, ecco qua le letture dell’ultimo mese, diverse (almeno in parte) da quelle che avrei pensato.
Da citare doverosamente per primo, sua maestà Jorge Luis Borges con i suoi racconti, contenuti nel volume Finzioni, edito da Adelphi. È uno di quegli autori che volevo leggere da anni, ma a cui avevo paura di avvicinarmi: al suo nome sono legati troppi ricordi di università, troppe continue citazioni degli studiosi che lo analizzavano e lo tiravano fuori a ogni piè sospinto, un senso di reverenza che la comunità letteraria e linguistica gli riservava come si fa con un nonno saggio e affettuoso, un capostipite, un pioniere. Finalmente me la sono sentita, e dentro questa raccolta ci sono racconti venerati in tutto il mondo come “Funes, l’uomo della memoria”, come “La biblioteca di Babele”, come “La morte e la bussola” (fra l’altro abbondantemente citato nel romanzo L’attentissima, di Teresa De Sio, che ho letto il mese scorso). Nella prosa di Borges ho dovuto riconoscere il genio, il continuo generarsi di idee pazzesche, una vitalità inesauribile, quel realismo magico che tanti autori sudamericani hanno amato, ma con una sfumatura culturale e speculativa che lascia a bocca aperta. Consigliatissimo quando si vuole abbandonare per un momento la narrativa più tradizionale e assaporare un’inventiva senza fine.
Poi sono passata a tutt’altro genere di libro: Come uscire di casa e ritornarci sana e salva, di Jane Goldman (sì, la stessa Jane Goldman nota come sceneggiatrice televisiva e cinematografica), un libretto agile edito da Mondadori nel 1997, da molto tempo fuori catalogo – io ne ho trovata una copia usata su ebay. Contiene una serie di suggerimenti alle ragazze, diciamo dai 13 anni in su, per godersi la giovinezza con spensieratezza ma la giusta dose di prudenza, in modo da scansare situazioni indesiderate e potenzialmente pericolose (sì, l’ho preso per Mini-Velma che fra un paio d’anni avrà quell’età). In un mondo in cui i ragazzi e gli uomini a volte non hanno ancora imparato a comportarsi bene, tenere qualche asso nascosto nella manica può aiutare. Il tono non è moralistico né pedante, anzi l’autrice ha un approccio complice nei riguardi delle sue lettrici. Sarebbe una bella cosa se di questo libro potesse uscire una nuova versione, aggiornata ai nostri tempi con tutto ciò che riguarda un uso sicuro di internet e dei social network: dov’è una nuova Jane Goldman che possa scriverlo, con lo stesso atteggiamento comprensivo e amichevole? (Roberta Marasco, se ci sei batti un colpo)
Per niente amichevole è questo bestione da 700 pagine, Breve storia di sette omicidi, del giamaicano Marlon James; vincitore nel 2015 del Man Booker Prize, è stato pubblicato in Italia da Frassinelli e poi riproposto come tascabile nella collana Pickwick. È un libro pazzesco, che racconta da decine di punti di vista diversi il periodo di grande fermento politico e sociale, con derive terroristiche, in cui si trovò la Giamaica alla fine degli anni Settanta. Gangster, gente comune, agenti dell’FBI, trafficanti di droga e tanti altri personaggi compongono un mosaico difficile da seguire (e non oso pensare quanto sia stato difficile da mettere insieme). Le tensioni sfociano in un attentato ai danni nientemeno che di Bob Marley, la cui figura “pacificatrice” dà fastidio a molti, e questo episodio avrà conseguenze sulle persone che a vario titolo lo hanno vissuto, fino all’inizio degli anni Novanta. James utilizza una prosa secca e la diversifica di personaggio in personaggio, rendendo per ciascuno quasi palpabili il carattere, l’estrazione sociale, il coinvolgimento emotivo. Un lavoro davvero superbo, avercene di libri così.
Presa da un momento di piccole tensioni quotidiane, ho cercato riparo in un porto sicuro: la poesia di Mario Luzi, con cui ero venuta a contatto per la prima volta in tempi universitari (benedetto l’esame di letteratura italiana). Non aprivo la raccolta completa Tutte le poesie (ed. Garzanti) da anni, e anche nelle ultime occasioni andavo sempre a rileggermi le mie preferite: su tutte, “Avorio”, “Notizie a Giuseppina dopo tanti anni” e “Presso il Bisenzio”. Stavolta invece ho piluccato a caso, scorrendo le pagine così come mi veniva, ed è stato bello immergersi in quella strana quiete disperata, quella ricerca di emozioni piccole ma pungenti, di uno sguardo dolce sulla vita, che accetta le sofferenze senza difendersi con il cinismo a cui ormai siamo abituati. Rigenerante.
Sempre in ambito poetico, mi sono finalmente letta per bene la silloge Se mi ami sopravvalutami, di Viviana Viviani (ed. Controluna), un’autrice che ho intercettato online – nemmeno ricordo più come sia finita fra i miei contatti di Facebook. Viviani è fra le altre cose un’opinionista arguta, dotata di uno spirito umoristico tagliente e per nulla politically correct, e tutto sommato questo spirito torna anche nelle poesie, popolate da uomini che mandano dick-pic nelle chat dei social, telefonini che non suonano, nomi di amanti usati come password… eppure oltrepassando la tecnologia che pervade anche i sentimenti più profondi, poi si parla con grazia e passione di sogni inconfessabili, di anziani nelle case di riposo, di ricordi lontani, del tempo padrone di tutti noi. Fanno male dentro, poesie del genere? Un po’ sì, ma ricordiamoci che fatti non foste a viver come bruti, eccetera.
E infine, c’è lei: la trilogia completa, raccolta in volume unico, del magnifico Jonas Fink, scritto e disegnato da Vittorio Giardino (ed. Rizzoli Lizard). Avevo acquistato le prime due parti della storia moltissimi anni fa, credo anzi di avere ancora i volumi in formato gigante, letti e riletti fino a consumarli. Poi, causa mia disattenzione, mi era completamente sfuggito che finalmente, nel 2018, l’autore ha completato l’opera! E mi ci sono fiondata subito. Giardino ha una delicatezza assoluta nella prosa e nel tratto, un’attenzione maniacale al dettaglio, un uso pulito del colore… perfino il lettering è speciale. La storia segue dall’infanzia all’età adulta la vita di Jonas, un ragazzo ebreo che vive a Praga nel periodo del regime sovietico, e che viene costantemente tenuto d’occhio dai servizi segreti del governo perché il padre è incarcerato con l’accusa (non si capisce quanto fondata) di essere un sovversivo. L’atmosfera grigia e piena di tensione che avvolge la gente comune costretta a vivere sotto il regime stalinista è, secondo me, il tema che più emerge dalla storia; ogni gesto di Jonas, dalle vicissitudini amorose ai normali momenti di vita quotidiana, è condizionato da questa cappa di paura strisciante. Un po’ mi ricorda Pyongyang, il fumetto di Guy Delisle di cui avevo parlato in questo post: ma più soffocante, più intenso. Delisle poteva permettersi la tranquillità e lo sguardo ironico di chi si trova in Corea del Nord per pochi mesi, il tempo di una trasferta di lavoro; invece Jonas, per buona parte della sua vita, si sente condannato a non conoscere mai una realtà diversa (“Una vita sospesa”, recita il sottotitolo dell’opera). Per gli italiani della mia generazione e delle successive, cresciute dando per scontata la libertà di cui godiamo, una lettura come questa è un monito importante.