The Witcher: Blood Origin – Fantasy
The Witcher: Blood Origin è una miniserie fantasy in soli 4 episodi, distribuita su Netflix, che funge da prequel alla saga televisiva ispirata ai romanzi e ai racconti di Andrzej Sapkowski (della prima stagione avevo parlato in questo post, della seconda in quest’altro).
La storia ha l’obiettivo di raccontare come nacquero gli Witcher: chi fu il primo fra loro e come subì la mutazione che lo portò ad avere gli occhi arancioni, la forza sovrumana e i poteri magici. Un breve prologo, che vede protagonista il bardo Ranuncolo insieme a un’altra narratrice di storie, ci introduce alla conoscenza di un mondo antico (1200 anni prima degli eventi riguardanti Geralt di Rivia) in cui un gruppo di avventurieri si imbarca nella tradizionale missione impossibile che tuttavia, per ciascuno di loro, è abbastanza importante da volerla affrontare. Se però la presentazione dei singoli personaggi e il loro fare gruppo un po’ alla volta è un classico dei classici, e come tale viene offerto allo spettatore con tanto di voce fuori campo (“e i due divennero tre… e i tre divennero quattro…”), gran parte della storia è prevedibile per non dire telefonata, senza alcun meta-strumento che renda la cosa meno fastidiosa.
[Attenzione: SPOILER! Non eccessivi, ma insomma qualche dettaglio lo svelo apertamente.]
In particolare, terzo e quarto episodio sembrano il vademecum delle scene già viste in film, serie tv, anime e compagnia cantando: un tradimento che sembra tale ma non è, una persona che si offre volontaria per un esperimento ma alla fine ne sarà estromessa, una storia d’amore enemies to lovers (della quale si può prevedere millimetricamente quando smetteranno di detestarsi, quando inizieranno a stimarsi, quando la stima diventerà qualcosa in più, quando arriverà il primo bacio, quando lui compirà un grosso sacrificio per lei, quando faranno sesso eccetera), un’amicizia cameratesca fra nana ed elfo… ce n’è a pacchi. Annoto anche qualche soluzione narrativa stupidotta: una donna che fa parte di una banda di ricercati si presenta al palazzo imperiale, pretende di parlare direttamente con l’imperatrice ed è subito accontentata, in più viene condotta alla presenza appunto di sua maestà imperiale – mica dell’ultimo galoppino dell’anagrafe – senza che nessuno prima le faccia consegnare le armi… mah.
Difficile da inquadrare anche il fronte dei cattivi, che non si capisce bene quando e perché vogliono allearsi, quando e perché vogliono tradirsi, eccetera. L’imperatrice però è inquietante quanto basta (anche grazie a una curiosa scelta di make-up che le fa degli occhi enormi, sembra presa dal film di Alita) e si porta addosso un misto di ambizione, di furbizia e di solitudine che due brividini li fa venire. Probabilmente il suo è il finale migliore.
Scenografie, costumi ed effetti speciali non sono malvagi (tranne i vestiti dell’imperatrice, soprattutto quello “da battaglia”, che nello sforzo di essere originali diventano un po’ plasticosi). Troppo gestita a tavolino, invece, la presenza di minoranze di vario genere dal punto di vista delle etnie, delle disabilità, dell’orientamento sessuale eccetera: ora, trovo giustissimo non limitarsi ai classici eroi maschi, bianchi, belli e buoni, ma in tutta onestà credo che statisticamente ci fossero poche probabilità di trovare una tale varietà in un nucleo tutto sommato contenuto di personaggi. Comunque, questa cosa la segnalo solo come questione di lana caprina, perché non dà fastidio alla storia, anzi a volte la vivacizza (il mio personaggio preferito è Meldof: questa cosa di essersi forgiata il martello da guerra mescolando al metallo le ceneri dell’amante è fuori di testa).
Insomma: prodotto banalotto, adatto per una minimaratona di relax (Michelle Yeoh, ma chi te l’ha fatto fare di recitare in questa serie). Se non altro racconta l’origine degli Witcher, cosa che agli amanti della saga di Geralt di Rivia farà piacere.