Letture di Aprile 2020
Ormai l’aspetto che mi diverte di più nella programmazione delle letture è la varietà. Ogni mese cerco di incastrare i testi più disparati e ne vengono fuori associazioni bizzarre, a volte dotate di senso a volte no (tipo: non sarà che il conte Vronskij ha qualcosa in comune con Nino Sarratore?). Questo mese ho iniziato Anna Karenina, che di sicuro mi farà compagnia anche il mese prossimo, e ho affrontato testi piuttosto diversi fra loro. Mi spiace non aver inserito nulla di saggistica, mannaggia: banalmente, me ne sono dimenticata.
Sul fronte “voglia di svago”, ho provato per la prima volta l’autrice di punta Newton Compton nel settore del chick-lit, Anna Premoli, con il suo Ti prego lasciati odiare che ha vinto il Premio Bancarella nel 2013. Mi sono divertita: all’inizio non ero presissima, però andando avanti ho apprezzato la storia e mi hanno incuriosita le location. Ai protagonisti Ian e Jenny, come mi succede spesso, ho preferito i comprimari, soprattutto quelli un po’ sopra le righe (come il Duca di Revington, nonno di Ian) e quelli dotati del caro vecchio buon senso (come Eliott, lo psicologo amico della sorella di Jenny). Ho storto il naso solo davanti ad alcuni difetti formali: ripetizioni, allitterazioni, rime involontarie… so di avere un’idiosincrasia eccessiva per questo genere di imperfezioni, dev’essere un tarlo che risale ai tempi in cui facevo l’adattatrice (certi doppiatori potrebbero ucciderti per una rima o un’allitterazione di troppo). Nel complesso, il libro ha fatto il suo mestiere di fornire l’intrattenimento che gli chiedevo.
Più impegnativo è stato il mio secondo incontro con Tahar Ben Jelloun, di cui ho letto Il matrimonio di piacere, edito in Italia da La Nave di Teseo. Rispetto al mio primo contatto con questo autore (Mia madre, la mia bambina), questo romanzo rispetto al mio gusto scorre molto meglio, e per fortuna non è caratterizzato dallo stile in cui mi ero imbattuta in precedenza, con periodi lunghi e un fraseggio ampio, ricco di pause morbide, bensì da una scrittura ritmica e sorvegliata. Ho seguito la storia e i suoi protagonisti con molto interesse soprattutto nella prima parte, poi arrivata circa a metà qualcosa è cambiato: un po’ ho perso stima del protagonista, che all’inizio era sembrato più deciso di quanto non sia stato poi, e un po’ il romanzo è andato oltre il tema principale suggerito dal titolo per raccontare una seconda storia, connessa alla prima da legami di parentela. Questa seconda storia è tragica e interessante, però mi è dispiaciuto che alla prima non sia stato dato maggiore spazio, speravo che l’argomento (il contrasto tra la prima moglie di un uomo mussulmano e la nuova moglie giunta in famiglia successivamente) fosse più sviscerato e potesse dipanarsi in un numero maggiore di episodi, che comunque l’autore non avrebbe mai reso banali o melodrammatici. È come se mi avessero tolto a tradimento un pezzo del libro per sostituirlo con un altro. Meno male che il personaggio di Karim, il figlio affetto da mongolismo del protagonista, è talmente ben descritto e caratterizzato da avermi tenuta attaccata alle pagine sempre sperando che ci fossero nuove parti dedicate a lui, e in effetti qualcosa c’è anche sul finale.
Mi sono poi dedicata alla Cronaca di una morte annunciata di Gabriel Garcia Marquez, in una vecchia edizione dei Miti Mondadori. Lo avevo già letto molti (troppi) anni fa, ma ne avevo un ricordo appiattito e ho voluto rispolverarlo. Oltre alla prosa di Garcia Marquez e all’incastro di tempi, momenti, testimoni e ricostruzioni, che fa la sua figura come in un giallo di Sherlock Holmes, l’elemento che mi ha più colpita in questa rilettura è qualcosa a cui, anni fa, non avevo prestato attenzione: gli autori del delitto le avevano provate tutte affinché qualcuno impedisse loro di commetterlo, quel delitto a cui erano “obbligati” da un codice d’onore che sentivano di non poter sfidare (ammesso poi che il condannato fosse colpevole, cosa che rimane abbastanza dubbia). Forse l’intento dell’autore era di puntare il dito sulle usanze di un certo tipo di luoghi, comunità e culture, io ho sentito più che altro una strana tenerezza per quei due poveri diavoli che non sapevano nemmeno da che parte cominciare, a uccidere un uomo, e cercavano in tutti i modi di farsi coraggio sperando in cuor loro che qualcuno li fermasse, simboli ingenui di un’umanità troppo spesso perduta, incapace di districarsi fra i casi della vita.
Ho proseguito la saga dell’Amica Geniale di Elena Ferrante con il secondo volume, Storia del nuovo cognome, per le edizioni e/o. Il primo volume l’avevo letto l’anno scorso e la cosa ridicola è che mi ero convinta ad acquistarlo perché, sapendo che prima o poi l’avrei voluto leggere, non intendevo ridurmi al momento in cui rimanesse disponibile solo l’edizione con la copertina tratta dalla serie televisiva (io detesto le cover dei libri con gli attori che interpretano le serie tv o i film, ne capisco l’utilità e nei panni degli editori le userei anche io, però le detesto lo stesso). Il secondo volume mi è piaciuto più del primo, anzi da metà in poi sono andata di gran carriera e l’ho finito rapidamente; forse perché, nonostante anche del primo fossi rimasta soddisfatta, riuscivo ad appassionarmi solo fino a un certo punto alle sorti di due bambine. Nel secondo volume le protagoniste sono cresciute: una studia, l’altra lavora, le loro discussioni (e quelle dei comprimari) spaziano fra tanti argomenti e c’è sempre quel filo conduttore, sull’istruzione come strumento di riscatto purché non fine a se stessa, che amo particolarmente. La scena di Lila ed Enzo chini sui libri a tarda notte credo mi rimarrà indelebile nella memoria. L’unica cosa che non ho troppo apprezzato è la necessità di spiazzare sempre e comunque, ogni volta che si tira in ballo Lila: va bene un carattere ruvido e istintivo, ma se ogni santa volta che Lenù (la voce narrante) si aspetta qualcosa, poi Lila deve sempre ribaltare le carte in tavola consciamente o meno, sarà anche occasione di sorpresa ma alla lunga diventa un giochino ripetitivo. Questo non toglie che io abbia ordinato al mio libraio di fiducia gli altri due volumi.
Proprio dal libraio di fiducia, mesi fa, avevo acquistato d’istinto un libro per ragazzi intitolato La fuga del robot selvatico, di Peter Brown. L’avevo preso perché cercavo una buona lettura per Mini-Velma, perché il tema dei robot e delle intelligenze artificiali mi interessa, perché colpita dalla copertina. Il tutto per scoprire poi che si trattava di un seguito; e così mi sono procurata il primo volume, che si intitola semplicemente Il robot selvatico (entrambi sono editi da Salani), noto a quanto pare per avere vinto diversi premi importanti nel settore della narrativa per ragazzi. Non posso dire di averlo trovato appassionante, uno di quei libri di cui giri le pagine di corsa per sapere cosa succede e poi di nuovo cosa succede; però gli riconosco una certa poesia, un modo particolarmente rasserenante di descrivere le situazioni, anche le più temibili o pericolose. Più si va avanti più ci si affeziona alla protagonista e al cosmo animale che le ruota intorno, alla loro limpidezza nel seguire le leggi di natura (anche quando prevedono che il predatore mangi la preda), alla semplicità con cui vedono il mondo; laddove invece gli altri robot, quelli che seguono gli ordini degli umani, mostrano una certa illogicità nel seguire quegli ordini anche quando hanno poco senso. Bel libro nel complesso, eleganti e delicate le illustrazioni (anche’esse opera di Peter Brown), peccato solo che la lettura venga affaticata dai frequenti passaggi dal maschile al femminile quando si parla della protagonista; ma è un problema della lingua italiana che non conosce il neutro e fatica a conciliare il genere maschile della parola “robot” quando quel robot si chiama Roz e diventa in buona sostanza una madre. Non invidio la povera traduttrice Dida Paggi che si è trovata di fronte a questo pasticcio ed è riuscita a dirimerlo cercando un compromesso che ho comunque trovato onorevole.
Tra i fumetti, mi sono riletta dopo diversi anni i tre volumi dedicati alla vita da ragazza di Emma Frost: di sicuro non rimarranno nella storia, ma visto che sto leggendo anche gli episodi della serie regolare degli X-Men scritti a suo tempo da Joss Whedon, che con il personaggio di Emma ci ha giocato parecchio, ho pensato che un ripasso non facesse male. Ma soprattutto ho letto tutta d’un fiato una serie limitata (14 numeri in tutto) della Sergio Bonelli Editore, ovvero Cani Sciolti, scritta da Gianfranco Manfredi. È una serie diversa dal solito: non appartiene a uno dei generi tradizionali (western, thriller, fantascienza, horror, ecc) ma segue le vite di sei amici (quattro ragazzi e due ragazze) in Italia dal 1968, anno in cui il gruppo si forma durante le manifestazioni studentesche, al 1988, anno in cui i sei amici si ritrovano. Nei 14 episodi si toccano argomenti come amicizie, amori, famiglia, scontri sociali, guerra del Vietnam, rivoluzione sessuale, lotte operaie, terrorismo, la strage di Piazza Fontana, il concerto dell’Isola di Wight, il terremoto del Friuli… Non c’è la struttura tipica da viaggio dell’eroe, semmai ci sono percorsi di crescita in cui la dimensione privata si intreccia con quella pubblica e politica. Uno spaccato di storia italiana che Manfredi sa descrivere con la scioltezza di chi certi eventi li ha vissuti in prima persona (e quel che non ha vissuto direttamente, ha studiato e ricostruito). Un bellissimo romanzo storico e corale, a puntate. Purtroppo Cani Sciolti ha pagato la sua originalità con vendite basse, tanto da costringere l’editore all’interruzione della serie quando mancavano ancora 6 numeri. Gli ultimi episodi verranno stampati in volume da libreria, saltando il passaggio degli albi da edicola (e anche i primi sono al momento in fase di ristampa, accorpati due a due in volumi cartonati per il mercato delle librerie).