Formazione e preparazione
Formazione è una parola che sento pronunciare spesso (da amici, conoscenti, giornalisti, politici…) in contesti che hanno a che vedere con il mercato del lavoro, la proporzione tra domanda e offerta, i mestieri per cui c’è più richiesta e meno personale… cose così.
Non ne sento parlare quasi mai nel sottobosco scrittevole, con tutto che frequento (online e/o in real life) persone che di lettura e scrittura si interessano: blogger, editor, aspiranti autori/autrici. Il web è stracolmo, per dire, di pagine Facebook e blog letterari che intervistano, recensiscono, segnalano, riassumono, aggiornano, promuovono, e molto altro ancora.
Peccato che spesso le interviste siano fotocopiate, le recensioni superficiali, le segnalazioni inconsistenti, i riassunti sconclusionati, gli aggiornamenti irrilevanti e le promozioni oltre il limite della piaggeria.
Il che non sarebbe grave se, in occasione di confronti e discussioni sui post di vari lit-blog, non si girasse quasi sempre intorno a concetti come “il mondo è bello perché è vario”, oppure “i gusti sono gusti”, o il sempreverde “siamo lettrici forti e ci mettiamo tanta passione”. A occhio, manca solo “il libro è sempre meglio del film”.
Difficile trovare qualcuno che si ponga il problema della preparazione e delle competenze. Allora, diciamo che tu scrivi su un lit-blog. Bene. Ce l’hai una formazione umanistica? A quando risale? L’hai coltivata nel tempo? Se invece sei autodidatta, su cosa ti sei formata? Cosa hai studiato? Una volta ogni tanto, leggi recensioni o articoli di critica letteraria pubblicati su riviste oppure sui supplementi culturali dei quotidiani? Quando leggi un libro con un apparato critico, l’introduzione te la studi o la salti a piedi pari?
Se davanti a queste domande riesci solo a rispondere che sei una lettrice forte e che ci metti tanta passione, allora hai certamente il diritto di scrivere le tue opinioni e le tue idee, ma ho qualche grosso dubbio sul fatto che tu abbia il diritto di chiamarle “recensioni” – sempre che non ti trinceri dietro un apposito disclaimer tipo “le mie recensioni non hanno pretese, sono solo l’espressione del mio punto di vista”, ma allora dillo che stai giocando con il vocabolario della lingua italiana. Perfino Wikipedia sa di cosa stiamo parlando.
[No, Amazon non lo sa, non mi tirare fuori Amazon che è solo peggio: Amazon chiama “recensioni” qualcosa che farebbe meglio a chiamare “impressioni a caldo”. Men che meno TripAdvisor o altri social del genere, che sono solo la dimostrazione dell’assunto di Umberto Eco sulle legioni di imbecilli a cui internet ha dato diritto di parola.]
Tutto questo mi è venuto in mente dopo qualche chiacchierata con persone che si pongono interrogativi simili e, oggi in particolare, dopo aver letto questo articolo segnalato da BookBlister – a proposito, sei una lit-blogger? Sì? Lo segui BookBlister? No? Male. Trascuriamo momentaneamente il contesto dal quale l’articolo è nato (il cosiddetto “scandalo Marchesini”) e concentriamoci sulla sua parte centrale, quella in cui l’articolista cita una serie di esempi relativi ad autori, opere e argomenti di cui si è occupato, nel corso degli anni, un critico letterario esperto come Matteo Marchesini, che scrive su Il Sole 24 Ore e su altre testate di rilievo. Ripeto, è solo una serie di esempi, non esaustiva. Torno a farti domande. Conosci diciamo, mi voglio rovinare, il 20% di quei titoli e nomi citati nell’articolo? No? Oppure: sì, ma solo per sentito dire?
Allora, benedetta figliola: che cosa recensisci a fare?
E capisco di suonare spocchiosa. Snob, quantomeno. Vorrei fosse chiaro, gentile lit-blogger, che non metto in dubbio la passione, l’impegno, la quantità di letture (ci riuscissi io, a leggere tutta quella roba ai tuoi ritmi). Credo però che, senza una preparazione adeguata, sia facile lasciarsi trascinare solo dai propri gusti e lasciarsi accecare dai pregiudizi (negativi o, peggio ancora, positivi).
E niente, oggi ho sproloquiato sui lit-blog, ma si potrebbero fare ragionamenti analoghi sugli aspiranti autori (come me!), sugli editor che si sopravvalutano, sugli agenti improvvisati, su certi/e scrittori/scrittrici esordienti che considerano lo stuolo delle groupie in ginocchio un motivo sufficiente a ritenersi capaci e talentuosi/e (notizia dell’ultima ora: tante vendite NON è sinonimo di tanta bravura).
Però la formazione no, quella mai. Tranne per qualche felice eccezione. Questa, ad esempio. E poche, pochissime altre. Sigh.
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Numero 1.
Eeeeeh, ma tu per molti anni hai scritto recensioni di fumetti! Ce l’avevi tutta questa preparazione? Eh? Tutte queste competenze?
Risposta: sì. Diversi esami universitari con tesine sul fumetto o (quando non era possibile) su argomenti limitrofi, una tesi di laurea da 300 pagine (poi trasformata in un volume che ha vinto un premio nazionale), decine e decine di articoli e saggi sul fumetto (la storia, il linguaggio, l’evoluzione, gli autori, gli stili, i generi) studiati riga per riga, assimilati fino alle virgole e rielaborati in modo da fornirmi un background solido. Il che a volte, questo è vero, ancora non bastava per comprendere fino in fondo (e quindi recensire) certe opere a fumetti particolarmente elaborate.
Numero 2.
Eeeeeh, ma tu non vorrai mica farci credere di conoscerlo, quel 20% di titoli e nomi!
Risposta: no. Non lo conosco. Infatti non mi metto a fare la lit-blogger.