“Un giorno ideale per i pescibanana” di J.D. Salinger (contenuto nella raccolta Nove Racconti, ed. Einaudi, traduzione di Carlo Fruttero) è IL RACCONTO PERFETTO, diceva sempre l’amico che me lo ha segnalato. Adesso, non saprei se sia proprio il racconto migliore al mondo (si potrebbero tirare in ballo autrici come Flannery O’Connor e Alice Munro oppure autori come Philip K. Dick e Ambrose Bierce), ma di sicuro è di una bellezza travolgente. Da far male.
Probabilmente, a rendermi così entusiasta è il fatto che, rispetto ai miei criteri di comprensione e interpretazione di un testo, “Un giorno ideale per i pescibanana” è un esempio luminoso su come raccontare né più né meno dell’indispensabile, lasciando al lettore il compito di riempire gli spazi bianchi, calcolati con attenzione millimetrica. Un testo che dice troppo poco risulta poco chiaro (o nel peggiore dei casi addirittura incomprensibile), un testo che invece dice troppo è ridondante e fastidioso per un lettore, dotato di competenze almeno nella media, che si sente preso per la manina e accompagnato nella sua lettura quando non ne ha alcun bisogno. Questo è un argomento che mi attira come succede alle falene con la luce, ci giro sempre intorno, anzi quando sono io a scribacchiare qualcosa (un racconto, un dialogo di un romanzo, una scenetta buffa per un post su Facebook), mi chiedo in modo ossessivo: “Ho detto troppo? Troppo poco?”
Come autore (anche) di racconti, Salinger mi ricorda un po’ Carver, ad esempio con “La casa di Chef” di cui ti avevo parlato in questo post: c’è una complicità particolare fra autore e lettore, in questo tipo di racconti, un patto non scritto per cui ci si va incontro a vicenda. E secondo me, “Un giorno ideale per i pescibanana” è ancora più calibrato: Salinger ti mette addosso una tensione fortissima mentre ti passa fra le righe, pezzo dopo pezzo, tutto quello che ti serve per immaginare tante possibili biforcazioni della trama e lasciarti arrivare, fra un’ipotesi e l’altra, a un finale caustico e rapidissimo. La fulmineità appunto del finale è un valore aggiunto, aiuta a rendere più intensa la sensazione di coinvolgimento, un vero tuffo al cuore.
Ricordo un concerto in cui Francesco Guccini, prima di cantare la sua interpretazione della celebre “Luci a San Siro” di Vecchioni, diceva che si tratta di una di quelle canzoni talmente belle che a ogni cantautore viene da chiedersi con invidia: maledizione, perché non l’ho scritta io? Secondo me, qualsiasi scrittore o aspirante tale che arriva in fondo a “Il giorno ideale per i pesci banana” si fa la stessa domanda. La risposta è semplice: mica tutti si chiamano Salinger.