The Electric State, di Simon Stålenhag

The Electric State, dettaglio da un'illustrazione
The Electric State, dettaglio da un'illustrazione

The Electric State è il (bellissimo) romanzo illustrato dell’autore svedese Simon Stålenhag, da cui è tratto l’omonimo film (bruttino) uscito da poco su Netflix, con Chris Pratt, Millie Bobby Brown e Stanley Tucci.

Illustrazione da The Electric StateIl volume di Stålenhag, che in Italia è pubblicato da Mondadori nella collana Oscar Ink, è ambientato in un Nord America alternativo degli anni Novanta. Racconta la storia di Michelle, un’adolescente che, insieme al robottino umanoide Skip, affronta un viaggio di miglia e miglia per arrivare in una cittadina chiamata Point Linden, allo scopo di… non faccio spoiler. Il viaggio si snoda lungo paesaggi che sono al tempo stesso meravigliosi per la varietà di bellezze naturali che offre il territorio (zone desertiche, montagne innevate, boschi) e lugubri perché mostrano le tracce del disastro tecnologico che ha ridotto la popolazione del mondo (o quantomeno degli USA) a una massa di tecno-zombie moribondi, emaciati, dallo sguardo vacuo.

L’origine di questo spettrale Electric State è, nemmeno a dirlo, il classico fantaprogetto, nato da tecnologia militare in tempo di guerra e coltivato da multinazionali fameliche, volto a controllare le persone e andato oltre il suo scopo iniziale. Il panorama che si snoda lungo il viaggio davanti agli occhi di Michelle e Skip è desolato: macerie, rovine, cadaveri, poche oasi di vita e comunque pericolose.

Illustrazione da The Electric StateA guidare Michelle è la prudenza, perché la posta in gioco è troppo alta per fidarsi di chicchessia, per perdere tempo, per lasciarsi impietosire: Michelle non si fa carico di nessun genere di eroismo, va avanti per la sua strada e solo per la sua strada. Però, lungo il viaggio, talvolta si abbandona ai ricordi: quando era piccola, quando perse la madre, quando visse col nonno e poi con una (pessima) famiglia affidataria, quando seppe cosa si prova a essere innamorati. E quando, in un’ambiente sempre più pervaso da miseria, ignoranza e violenza, tutto andò a rotoli.

Il testo è accompagnato da spettacolari immagini a tutta pagina, anzi spesso a una pagina e mezzo o anche due: quasi sempre panorami e campi lunghi, immersi nella nebbia o nell’oscurità, da cui emergono le carcasse di quella che una volta era civiltà umana: la grandezza fa a pugni con la rovina e la decadenza, è come se l’intero Nord-America (l’Electric State per l’appunto) fosse diventato una nazione fantasma. L’inquietudine aumenta pagina dopo pagina, contestualmente alla narrazione che, un pezzetto alla volta, fra un flashback e l’altro, ci permette di ricostruire l’accaduto e di inorridire davanti alle conseguenze più estreme del disastro.

Locandina del film tratto dal romanzo di StålenhagÈ Michelle a raccontare in prima persona, in un modo diretto e trasparente che sembra rifarsi al cosiddetto grande romanzo americano (vecchio e nuovo), con poche descrizioni ma incisive, azioni rapide, una mera esposizione dei fatti senza commento. Dritto al cuore e allo stomaco. The Electric State mi ha riportato alla memoria opere come La strada di Cormac McCarthy, per il tipo di scrittura e per la nebbia polverosa che pervade l’aria e che ricorda della Strada ricorda l’onnipresente cenere; oppure un classico come Robinson Crusoe di Daniel Defoe, per la continua necessità di cercare mezzi di sussistenza, anche riducendosi allo sciacallaggio; o ancora The Cell di Stephen King, per le file di tecno-zombie allucinati e per il finale aperto, che in The Electric State è raccontato quasi tutto per immagini e ti fa venire un groppo in gola.

The Electric State, la copertinaPurtroppo il film non è all’altezza dell’opera originale e si riduce a un viaggio avventuroso e pieno di azione (il solito conflitto fra umani cattivi e robot buoni, con l’aggiunta di una spalla comica, alcuni buffi comprimari e un paio di villain) che si perde completamente per strada l’inquietudine spettrale del romanzo, quell’atmosfera che da sola fa il 90% dell’opera. C’è un accenno al tema della dipendenza dalla realtà virtuale, che ricorda un po’ Neuromante oppure The Peripheral di William Gibson, o anche Ready Player One di Ernest Cline, ma non è granché approfondito. Insomma un filmetto godibile per un paio d’ore di stravacco sul divano, e pure con qualche passaggio noiosetto (pensare che è diretto dai fratelli Russo, gli stessi di Avengers: Endgame, roba da matti). Il volume, per fortuna, è tutt’altro paio di maniche.

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