
Starkaðr è il protagonista de L’isola di ghiaccio, un romanzo di Angelo Berti uscito nel 2015 per I Doni Delle Muse. Berti ha scritto diversi altri libri, e rimpiango di aver iniziato solo adesso a leggere qualcosa di suo, peraltro partendo da così lontano: però, che dire, quando le costine dei libri che tieni sullo scaffale da anni ti guardano in un certo modo, capisci che è ora.
La storia prende le mosse da una leggenda della mitologia norrena (se ne fa cenno anche nel saggio imprescindibile I Miti Nordici di Gianna Chiesa Isnardi nel capitolo su Eroi, fabbri e re), con un inizio abbastanza canonico: un protagonista costretto dal senso di responsabilità a smettere di nascondersi e a tornare in azione dopo anni, per eliminare un re malvagio che sta tiranneggiando i popoli del suo regno. Il re è il figlioccio del protagonista, e oltretutto spadroneggia anche grazie all’alleanza con truppe di non-morti evocati da uno stregone e guidati da un condottiero (sempre non-morto) che, un tempo, di Starkaðr era il fratellastro. Quindi il coinvolgimento personale del protagonista è garantito.
Dopo, però, mi è mancata a lungo una sensazione di coerenza complessiva che faccia sentire il lettore a un determinato punto di un determinato arco. L’Isola di ghiaccio presenta diversi eventi, ma essi sembrano avere più familiarità con una narrazione orale che scritta, come fossero aggiunti uno in fila all’altro così da arricchire la storia principale in quantità ma non nel suo “senso” complessivo.
Ora, da un lato l’idea mi piace: prendere del materiale antichissimo, pieno di lacune e contraddizioni (se ne parla anche nella postfazione al volume) per dargli ordine e un senso compiuto, naturalmente con qualche licenza. Dall’altro, mi rimane sempre il dubbio che su della materia così tanto grezza si possa lavorare solo pagando un prezzo alto, ovvero l’immediatezza del racconto. Proprio in questi giorni leggevo le Lezioni americane di Calvino e sono rimasta colpita dal capitolo sulla Rapidità, dove dice: “la prima caratteristica del folktale è l’economia espressiva; le peripezie più straordinarie sono raccontate tenendo conto solo dell’essenziale” (p. 42). E il fantasy è erede per eccellenza del folktale.
Ecco, in certi punti ho la sensazione che la leggenda di Starkaðr, nella versione ampliata di Berti, si fermi a metà fra il racconto mitologico scarno e rapido come lo intende Calvino e il romanzo vero e proprio, a cui servirebbe una costruzione ancora più ariosa e meno sintetica. C’è da dire, però, che più ci si avvicina al finale e più la struttura narrativa si solidifica: grazie a una crescente armonia fra il viaggio interiore e quello esteriore dei personaggi, Starkaðr si evolve da guerriero riluttante a comandante responsabile delle sue truppe e anche i coprotagonisti diventano più tridimensionali.
Infine, c’è un aspetto che trovo interessantissimo nel personaggio di Starkaðr com’è presentato nell’Isola di ghiaccio, ed è il suo completo disinteresse per le apparenze del mondo, anche quelle che in teoria dovrebbero toccarlo da vicino, come la reputazione e le falsità che si narrano su di lui. Ogni volta che Starkaðr compie un passo verso l’obiettivo finale (viaggiare, allenarsi sotto la guida di guerrieri superiori, raccogliere uomini), lo fa sempre per ragioni pratiche, al massimo per senso del dovere, mai per ottenere un ruolo o per dar retta a profezie più o meno lusinghiere. C’è bisogno della tal cosa, organizziamoci e facciamola, dopodiché grazie e arrivederci. Incluso il finale in cui, di nuovo, lo sguardo di Starkaðr (e secondo me anche del lettore) si posa severo sulla vanità di chi agisce credendosi spinto da chissà quale superiorità presunta.