
Orbital è il romanzo di Samantha Harvey che l’anno scorso ha vinto il Booker Prize. In Italia lo ha tradotto Gioia Guerzoni per Enne Enne Editore (che è un editore a cui voglio bene quantomeno perché ha pubblicato, fra i tanti libri degni di nota, anche un romanzo di Claire North).
Avevo aspettative alte per questo libro: di solito, i libri vincitori o finalisti del Booker Prize mi piacciono molto. E infatti ero partita supercoinvolta, ah ma guarda di cosa parla, ah vedi un po’ come se la sta giocando, ah pensa cosa le è venuto in mente. Poi invece l’entusiasmo si è raffreddato perché, procedendo nella lettura, ho trovato un calo di ritmo e di tensione: non nel senso di come può accadere in un romanzo tradizionale, perché Orbital decisamente non lo è, eppure ho sentito una ripetitività che, sebbene quasi necessaria in un testo di questo tipo, rispetto al mio gusto è eccessiva. Poi invece mi sono ri-entusiasmata perché sono venute fuori una trentina di ultime pagine stracolme di eventi, emozioni e riflessioni una più forte dell’altra. Insomma una lettura intensa.
Orbital descrive un giorno nella vita di sei astronauti che si trovano sulla Stazione Spaziale Internazionale: la routine quotidiana, i pasti, le chiacchiere, il lavoro… ma soprattutto ci porta dentro le loro emozioni, riuscendo a farci toccare, almeno in una microscopica parte, quei sentimenti di meraviglia e commozione, ma a volte anche straniamento e rimpianto, che provano quei rarissimi esseri umani capaci di arrivare fin lassù, a sfiorare le stelle, ad avere un punto di vista (letterale e metaforico) assolutamente unico sull’universo e sulla Terra. Albe, maree, tramonti, venti e uragani sono lontanissimi perché la distanza è abnorme, eppure vicini perché laggiù, su quel pianetino, ci sono le radici degli astronauti, le loro famiglie, il loro passato, le loro speranze e aspirazioni.
C’è un passaggio formidabile, secondo me, che ci porta dentro il sentimento meno familiare di tutti, per noi persone comuni, quella compresenza di attrazione e repulsione, di orgoglio e nostalgia: “è un’intossicazione, la droga dello spazio, la nostalgia di quelle altezze e di casa insieme. La simultaneità del non voler essere qui e del volerci essere sempre, il cuore scavato dal desiderio” (p. 128). Mi ha ricordato Le ore invisibili, di David Mitchell, dove un’esperienza analoga viene attribuita a un corrispondente di guerra che ha seguito (se ricordo bene) l’operazione Tempesta Nel Deserto e non riesce più a prenderne le distanze: non solo perché ne è rimasto traumatizzato, ma perché quando è a casa ritrova gli affetti ed è felice, eppure sente sempre il richiamo di quell’altra vita, di quell’adrenalina, di quella sensazione di vivere e raccontare la Storia.
Ogni personaggio ha poi una sua personale vicenda interiore, che mescola in qualche modo alle esperienze della permanenza nello spazio. Fra di esse, spicca la visione della Terra che è sempre diversa in base all’orbita che la SSI sta percorrendo: quindi in un dato momento gli astronauti saranno di fronte al Deserto dei Gobi e in un altro alle Maldive, e l’autrice ammucchia descrizioni su descrizioni di come il pianeta appare da così lontano, in sostanza tutto un susseguirsi di forme e colori, dove i confini decisi dall’uomo scompaiono.
Proprio questa insistenza a lungo andare mi è diventata pesante e mi ha fatto venire il dubbio che il testo potesse essere asciugato, senza bisogno di descrivere, e descrivere, e descrivere ancora scenari il cui senso arriva benissimo fin dal primo momento – per quanto, intendiamoci, le descrizioni siano vivaci e suggestive (per esempio “il Giappone è un ciuffo che sfuma fino a svanire”, p. 154, oppure “il liscio confetto di ghiaccio dell’Alaska”, p. 155; non credo che riuscirò più a pensare a questi due luoghi senza che mi vengano in mente le parole “ciuffo” e “confetto”).
Forse l’autrice intende dilatare il tempo di lettura per darci una percezione migliore del tempo “deformato” all’interno della SSI? Per coinvolgerci in quella sensazione mista fra la noia della routine e l’eccitazione dello spazio? Comunque sia, in certi passaggi ho fatto un po’ fatica a non distrarmi.
Mi ha aiutato però l’aver letto, qualche anno fa, un libro sempre ambientato sulla SSI anche se ben diverso per impostazione e sguardo: Diario di un’apprendista astronauta, di Samantha Cristoforetti. Molte fra le testimonianze dell’astronauta italiana mi erano rimaste impresse, soprattutto le parti sull’addestramento e sulla vita quotidiana a bordo della stazione, e tutto ciò ha costuito un’infarinatura nella quale “adagiare” Orbital e il suo approccio intimista: due universi che si sono fusi insieme. Non mi stupirei se Harvey avesse letto il libro di Cristoforetti, e se adesso stesse accadendo il contrario.
Infine: come mai qui sul blog ho taggato questo libro come un’opera di fantascienza? A rigore, è un romanzo di narrativa contemporanea…
Beh, in realtà è ambientato nel futuro. Non un futuro lontanissimo, ma pur sempre futuro: infatti, come sottofondo alle attività e ai pensieri dei protagonisti c’è la consapevolezza che proprio in quel momento altri astronauti sono già in volo, diretti verso la ri-conquista della Luna (cosa che accadrà, si presume, nel giro di qualche anno). La stazione spaziale, miracolo della scienza, è in un certo senso obsoleta, perché già si parla anche di raggiungere Marte e di altri eccitanti traguardi che la scienza rende sempre più vicini. Ma ho idea che Orbital, per il modo di scavare nelle anime dei suoi protagonisti e di portarci dentro le loro emozioni, obsoleto non diventerà.