
Lessico famigliare è solo uno dei tanti libri che ho letto questo mese… infatti sto cercando di continuare a riprendere la buona abitudine di leggere parecchio, e per ora sto andando bene. Sul fronte della narrativa del fantastico mi sono anzitutto divertita un sacco con Uova fatali di Michail Bulgakov (ed. Feltrinelli), poi ho finalmente affrontato La ferrovia sotterranea di Colson Whitehead (l’editore è SUR) su cui avevo messo gli occhi da un sacco di tempo. Ho poi virato verso il fantasy thriller con Il lusso dell’angelo di Melanto Mori (self published), e assaporato un po’ di atmosfera natalizia grazie a Batman: Natale di Lee Bermejo (volume a fumetti al momento edito da Panini Comics). Senza dimenticare il “librino” del mese, che è stato Il silenzio del mare di Vercors (bellissimo, struggente, densissimo), pubblicato da Einaudi.
Le letture dedicate alla narrativa non-di-genere sono partite con un classico che mi attendeva al varco da anni, e cioè Lessico famigliare di Natalia Ginzburg (la mia copia è delle Edizioni San Paolo su licenza Mondadori). Per la verità, un po’ l’ho letto nella sua versione cartacea e un po’ l’ho ascoltato nella lettura di Anna Bonaiuto per Ad alta voce di Radio 3: stupenda! Una recitazione sentita, intensa, con inflessioni dialettali e un tono caldo, assorto, che si adatta bene a questo libro così intimo e personale. La vita della famiglia Levi (ebrei e antifascisti, nella Torino degli anni che precedono e seguono la Seconda Guerra Mondiale) mescola con sapienza la Storia che si snoda anno dopo anno con le storie personali di genitori e fratelli viste dalla figlia più piccola, aggiungendo aneddoti e citazioni.
A colpirmi di più è stato l’ambiente politico e soprattutto culturale che si respirava attorno a loro: la passione della madre per Paul Valéry, l’abitudine di leggere poesie tutti insieme e di cantare arie d’opera, i contatti con persone come Giulio Einaudi, Elio Vittorini, Adriano Olivetti, Eugenio Montale, Filippo Turati, Cesare Pavese, e ovviamente Leone Ginzburg. E poi il lessico famigliare che dà il titolo al romanzo (vincitore nel 1963 del Premio Strega), quell’insieme di frasi, nomignoli e modi di dire che nascono un po’ per gioco e un po’ per caso in ogni famiglia e ne attraversano i ricordi. Tra i quali, il più dolce mi sembra quello di Silvio, fratello della madre di Natalia, morto suicida molto giovane, che emerge come una presenza impalpabile, citato qua e là da sua sorella, portato nel cuore con grande dolcezza.
Un autore di cui non leggevo nulla da qualche anno è Matteo Bussola, del quale però ho preso La neve in fondo al mare, edito da Einaudi. È un viaggio in mezzo a un gruppetto di famiglie che hanno una cosa in comune: un figlio, o figlia, ricoverato/a presso un reparto ospedaliero di neuropsichiatria dell’infanzia e dell’adolescenza. C’è chi manifesta comportamenti violenti, chi soffre di disordini alimentari, chi compie atti di autolesionismo e via dicendo. E ci sono i genitori: disperati, impotenti, completamente incapaci di entrare nelle menti dei loro ragazzi e di capire cosa diavolo sta succedendo, lì dentro, dov’è che le loro anime si sono spezzate, perché hanno questa sofferenza profonda che se li mangia dentro. Il tema è forte e difficile da affrontare, e lo dico perché lo conosco, eppure Bussola ne scrive con grazia. Chapeau.
Di salute e ospedali si parla parecchio anche in Il corpo delle onde, self-published da Lisa Pisani nel 2021. Avevo saputo di questa autrice diversi anni fa perché, girando su Instagram, mi ero imbattuta in un suo appello per trovare specialisti di neurologia disposti a esaminare il suo caso e a indirizzarla verso qualche ipotesi di diagnosi, dopo tanto tempo che soffriva di sintomi frequenti e dolorosi, di probabile origine appunto neurologica, di cui nessun medico fino a quel momento era riuscito a capire la causa. Qualche tempo fa, questo episodio mi è tornato in mente, così ho frugato il mio archivio di Instagram, ho ripescato il suo nome e scoperto l’esistenza del suo libro.
Qui Pisani racconta la storia della sua malattia e della sua odissea, fra visite, analisi, dottori e ospedali, per trovare risposta alla più semplice delle domande: che cosa ho? Un cammino complicatissimo che purtroppo, come spesso capita in questi casi, si scontra con le inefficienze delle strutture mediche, l’incompetenza di certi dottori, l’arroganza di altri, la tendenza a diagnosticare ciò che non si capisce buttandola sul disagio psichico. Poi per fortuna ci sono anche le persone in gamba, quelle gentili, quelle comprensive, ma nel complesso il calvario è bello tosto. Nota personale: l’autrice cita il Ponte Gobbo nella località di Bobbio, in Val Trebbia. È dove stanno le mie origini da parte di madre, dove vado ogni estate a rinfrancarmi e a sentirmi un’altra persona. Mia sorella lo chiama (a ragione) “il nostro luogo dello spirito”.
Mi rendo conto adesso, a metterli tutti in fila, che i libri di questo mese sono quasi tutti un bel cazzotto nei denti (fa eccezione giusto Lessico famigliare, almeno in parte). Il quarto è infatti La vita di chi resta, scritto da Matteo M. Bianchi e pubblicato da Mondadori. L’autore ricorda, a due decenni di distanza, l’evento che ha sconvolto la sua vita: il suicidio del suo ex-partner, avvenuto nella casa in cui i due avevano convissuto fino a qualche mese prima. Si parla quindi dei tanti “perché” destinati a piombarti nella testa quando una persona a te vicina compie un gesto simile, degli altrettanti “se avessi capito”, “se avessi fatto qualcosa” eccetera. Di quella trappola mentale da cui è difficilissimo uscire, rendendosi conto che la possibilita di “fare qualcosa” semplicemente, con ogni probabilità, non c’era.
Anche questo è un tema di cui posso parlare perché lo conosco, e ho provato un enorme stupore davanti al modo in cui Bianchi esprime esattamente, pagina per pagina, parola per parola, cosa provano i “sopravvissuti” (che è proprio il termine tecnico, anzi medico, con cui si definiscono coloro che hanno perso qualcuno per suicidio). Ma una tale precisione, una tale verità, da lasciare attoniti. Chapeau anche a lui.