
La ferrovia sotterranea è un romanzo ucronico di Colson Whitehead, uscito nel 2016 e vincitore l’anno dopo del Premio Pulitzer. Nel 2021, Prime Video lo ha trasposto in una miniserie televisiva di 10 episodi. In Italia, è pubblicato dalle Edizioni SUR.
È ambientato negli Stati Uniti nella prima metà dell’Ottocento e racconta la fuga di Cora dalla piantagione della Georgia presso la quale è schiava. Ha un nemico implacabile alle calcagna, un cacciatore di schiavi che non si dà pace da quando, anni prima, non è riuscito a catturare Mabel, la madre della stessa Cora, anche lei fuggita senza lasciare traccia alcuna. Inoltre ha un nemico forse meno determinato ma altrettanto crudele, il razzismo che pervade gli Stati Uniti: da quello violento e crudele dei persecutori propriamente detti, a quello sottinteso e perbenista degli attivisti che, è vero, aiutano gli ex-schiavi a trovare rifugio e lavoro, ma sempre con un mal dissimulato atteggiamento di superiorità. E infine ha un trauma interiore che la tormenta: perché sua madre ha scelto di fuggire, abbandonandola quando lei era solo una bambina?
Nulla di tutto questo farebbe della Ferrovia sotterranea un romanzo ucronico. A renderlo tale è il fatto che, mentre nella Storia il nome “ferrovia sotterranea” si riferiva a una rete di attivisti clandestini che aiutavano gli schiavi a fuggire dalle piantagioni, nel romanzo la ferrovia esiste davvero, proprio nel senso di un binario ferroviario nascosto sottoterra, con locomotiva e vagoni (alcuni talmente malridotti da essere dei carrelli aperti, insomma senza tetto). Della guida e della manutenzione si occupano diversi nuclei di antischiavisti, che senza troppi complimenti spostano i fuggiaschi da uno Stato all’altro e poi li passano ai loro contatti in loco.
A me il romanzo è piaciuto moltissimo, anche se mi sfugge il motivo per cui l’autore abbia optato per questa realtà alternativa della vera ferrovia: d’accordo che sui vagoni, nelle stazioni e lungo i binari sottoterra si svolgono numerose scene di un certo impatto, eppure mi resta l’idea che, se anche quelle stesse scene si fossero svolte, che so, su dei carri agricoli o presso l’argine di un fiume, i punti salienti dei libro sarebbero rimasti gli stessi e non sarebbe poi cambiato granché. Whitehead ha una scrittura fluida, avvincente, ti fa venire voglia di girare le pagine una dopo l’altra; e sa anche chiudere scene e capitoli con delle sferzate caustiche, che non si dimenticano.
La parte che ho apprezzato di più è il mistero che gira intorno a Mabel, la madre di Cora. Tutte le domande che si pongono i protagonisti del libro se le pone anche il lettore: come ha fatto a sparire in quel modo? A passare sotto il naso dei cacciatori di schiavi? Chi l’avrà aiutata? Magari sarà stata lei, una volta che si è messa in salvo, a fondare insieme ad altri la ferrovia sotterranea? Adorava la sua bambina, possibile che il desiderio di libertà sia stato più forte dell’amore materno? Cora riuscirà mai a ritrovarla e a darsi pace?
Trecentocinquanta pagine di interrogativi, e quando arriva la risposta è un ceffone che lascia il segno sulla guancia. Efficacissimo, indimenticabile.