
Questo mese di marzo è stato così antipatico, per tanti motivi, che mi ha scatenato una gran voglia di evasione e le letture ne hanno beneficiato.
Sul fronte del fantastico, mi sono dedicata a Stardust di Neil Gaiman (l’edizione della Magic Press illustrata da Charles Vess), a Orbital di Samantha Harvey (Enne Enne Editore), a The Electric State di Simon Stålenhag (Mondadori) e ai due romanzi di N.K. Jemisin che compongono la Dilogia del Dreamblood (ovvero La Luna Che Uccide e Il Sole Oscurato, entrambi editi da Fanucci).
Ovviamente c’è stato il tradizionale “librino” mensile, in questo caso il grottesco Sender Prager dell’autore polacco Israel Joshua Singer (Adelphi). Ho poi giocato un paio di volte a The Mandalorian Adventures, gioco da tavolo che ci porta nel mondo di Star Wars. E infine mi sono stravaccata sul divano un paio di volte a settimana per guardare due serie tv: Daredevil. Rinascita e la terza stagione della Ruota del Tempo (i miei commenti sui singoli episodi sono sparsi su e giù per la mia pagina Facebook).
Rientrando nel mondo dell’editoria mainstream, visto che Netflix ha strombazzato ai quattro venti la sua miniserie tratta da Il Gattopardo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa ho pensato di rileggermi il libro (ed. Feltrinelli), che non toccavo più credo dalla terza media. Mi aspettavo un bel mattoncino e invece l’ho trovato piacevole e soprattutto ironico, come se l’autore osservasse tutto con uno sguardo talmente smaliziato da potersi permettere un’assurda indulgenza nei confronti dei suoi personaggi così persi, come sospesi in una bolla tutta loro, mentre intorno alla bolla il mondo precipita (un po’ come succede adesso, mi sa). Il povero principe Fabrizio ci prova, ma non è davvero in grado di reggere il ritmo, la sua fuga nelle passioni intellettuali come l’astronomia è proprio il simbolo di una situazione che si ripete ciclicamente lungo la storia del genere umano. E quando la caducità colpisce davvero, fa male.
Tutt’altra atmosfera quella di Applausi a scena vuota, di David Grossman (Mondadori), vincitore nel 2017 del Man Booker International Prize. Nel romanzo va in scena il monologo di un attore ebreo che ripercorre, in modo a tratti commovente e a tratti sguaiato, con un umorismo crudele, ricordi di episodi lontani e pezzi della sua vita, tra cui un campeggio estivo di quando era ragazzino, che lui deve abbandonare in fretta a causa della morte di uno dei genitori: e per tutto il viaggio di ritorno a casa, nessuno gli dice chi sia morto, se il padre o la madre.
Assiste al monologo un vecchio amico, che a sua volta aveva partecipato a quel campeggio, e che ora è un giudice in pensione incapace di superare il trauma della morte della moglie. Nessuno dei due è lo stesso di un tempo, entrambi devono fare i conti con rimpianti e scelte di vita. Una scrittura un po’ pesante, bisogna leggerlo con ostinazione e quando si è ben riposati. Io non posso dire di essermelo goduto più di tanto, ma ammetto che certi passaggi che colpiscono forte, soprattutto dove lasciano che il lettore capisca tutto quello che c’è da capire senza bisogno di spiegarglielo parola per parola.
A questo punto mi serviva qualcosa di più leggero e ho ripescato dalla libreria La compagna di scuola di Madeleine Wickham, che poi sarebbe il vero nome di Sophie Kinsella (anche questo pubblicato da Mondadori). Scritta nel solito stile spumeggiante, è la storia di tre amiche abituate a presentare al mondo sempre e solo il loro lato più allegro e noncurante, mentre invece devono fare i conti – come tutti – con i problemi della vita, alcuni pure belli grossi. Una di loro in particolare convive con uno strisciante senso di colpa, legato a un’equivoca figura paterna, che la spinge in sostanza a lasciarsi sfruttare da una conoscente. Per quanto in un paio di occasioni la storia scivoli nella banalità (bisognava proprio mettercelo, il love interest che non c’entra una ceppa con tutto il resto?), è stata divertente da leggere e mi ha lasciato qualche spunto di riflessione non banale.
Infine, due libri di saggistica. Il primo è Buoni si nasce. Le origini del bene e del male, di Paul Bloom (pubblicata sotto il marchio del mensile Le Scienze), che raccoglie una serie di teorie, esperimenti socio e psicologici, resoconti e aneddoti finalizzati a trovare almeno qualche risposta o qualche ipotesi in relazione a una domanda: i valori etici dell’uomo sono innati o si apprendono? E, in un caso come nell’altro, secondo quali criteri o esigenze? Il risultato è un insieme di informazioni un po’ sparpagliate, che per un non addetto ai lavori è difficile tenere insieme, però lasciano uno spunto qui e uno là, sempre utili per un pizzico di formazione in più e anche per ispirare personaggi, storie, worldbuilding eccetera.
Il secondo è Verdun 1916: il fuoco, il sangue, il dovere di Alessandro Gualtieri (ed. Mattioli 1885), una trattazione abbastanza sintetica (in attesa di affrontarne una più estesa appena mi sarà possibile) della battaglia di Verdun, durante la Prima Guerra Mondiale. Nel libro si accennano le premesse dell’evento, ovvero la situazione prima che l’esercito tedesco avanzasse verso quella specifica città francese e come erano organizzati i due eserciti con le rispettive catene di comando, e poi si esaminano una ad una le tappe di quello che è passato alla storia come uno degli scontri più lunghi e catastrofici che qualsiasi guerra abbia mai visto. L’aspetto forse più triste è che, a paragonare quella battaglia con altre che si svolgono adesso nel mondo, certe dinamiche non sono mica tanto cambiate. Senza dimenticarlo, prendo appunti e custodisco pile di documentazione per scriverne, se e quando mi riuscirà.