Self-Publishing: Prodotto e Prezzo – Workshop 13
Nei post sul self-publishing delle due scorse domeniche (ecco a te i link per il primo e il secondo), ho cercato di trattare una serie di premesse che posso ricondurre a due concetti principali:
A – Il self-publishing fa per me?
B – Nel caso, va fatto sul serio investendoci tempo e/o denaro.
Adesso, invece, vorrei esaminare i fattori di cui tenere conto per, appunto, fare sul serio. Quelli con cui avevo concluso il post di domenica scorsa, le quattro P del marketing: lavorare sul prodotto, stabilire un prezzo, trovare il giusto posizionamento sul mercato, dedicare energie alla promozione. Quindi:
C – Quali sono i passaggi e come affrontarli?
Quasi tutto quello che c’è da dire su questo argomento è già stato detto e sviscerato su forum, siti, blog e via discorrendo. Credo allora che la cosa più utile che io possa fare sia una sorta di checklist in cui elencare in modo rigoroso e inequivocabile tutte le voci da spuntare per sentirsi in diritto di dire: ho fatto tutto il possibile. In questo post tratterò prodotto e prezzo, in quello di domenica prossima posizionamento e promozione. Vedrò di fornire qualche link e riferimento utile, anche sulla base di quanto ho ascoltato ieri nel corso di questo workshop…
…e sì, il post sarà chilometrico. Auguri, o impavido lettore.
PRODOTTO
Stesura = scrivi come se non ci fosse un domani. Procrastina il meno possibile. Scrivi ancora. Lascia sedimentare. Correggi. Riscrivi. Non accontentarti. Se alla fine non hai in mano il meglio che sai fare, tutto quello che segue non ti servirà a nulla.
Betareading = scova una o più persone disposte a leggere il manoscritto e a fornire una prima opinione, oltre a individuare errori e/o incongruenze. Non importa che il betareader svolga il suo lavoro gratis o a pagamento, purché lo faccia con competenza e fermezza.
La competenza può riguardare ambiti diversi, come racconta ad esempio Diane Fraser che, per correggere e limare il suo testo, si è servita di undici beta-reader diversi, perché aveva bisogno di feedback su tanti argomenti (disabilità, abusi domestici, fumetti, LGBT, assistenza medica a bambini, maternità…).
Quanto alla fermezza: si dice che sia sconsigliabile mostrare il proprio lavoro ad amici e/o parenti, perché non hanno il distacco emotivo necessario, quindi tendono a essere troppo morbidi e a partire con un pregiudizio positivo verso l’autore. Vorrei in parte dissentire: al mondo esistono persone che, a dispetto del loro legame con l’autore, hanno la maturità necessaria a distaccarsi quanto serve. Le mie attuali beta-reader sono due sadiche e mi restituiscono le pagine riempite di note e scarabocchi senza pietà (Roberta una volta era la mia datrice di lavoro ed è abituata da anni a tirarmi cazziatoni memorabili, Hilda è una maniaca del fantasy oltre che una fan dell’Accademia della Crusca e mi appiccica al muro ogni volta che qualcosa non le torna).
Pare sia sconsigliabile anche consegnare il lavoro a tappe (un capitolo alla volta, o gruppetti di capitoli alla volta) invece che quando è terminato. Di nuovo, non è detto: se lavoro a un romanzo lungo che ha bisogno di attenzione anche sul piano logistico (tempi, distanze, legami causa-effetto), mi fa comodo se qualcuno mi becca l’errore catastrofico già a pagina 18, invece che a pagina 300, perché in questo modo, già da pagina 19, quell’errore non lo commetto più e non metto a rischio mezza storia solo perché, calcolando quanto tempo impiega Tizio per arrivare da Caio viaggiando a cavallo, ho dimenticato di considerare che per metà del tempo piove e quindi il cavallo va più lento. Questo non toglie che, a stesura finita, di beta-reader ne cercherò anche altri, ma sono convinta che le mie due malefiche arpie diano già una bella sgrossata.
Credo che, nel caso dei beta-reader come in qualsiasi altro caso, non esista LA regola. Esistono modalità collaudate che meritano assoluta considerazione ma possono prevedere delle eccezioni quando necessario. Se scrivo un memoir sulla vita di mio padre, come minimo devo far leggere tutto a mia sorella che certi racconti se li ricorda meglio di me, e anche quello è beta-reading. Quantomeno, uno dei tanti beta-reading possibili e necessari. A ciascuno trovare il suo o i suoi.
Editing = assolda una persona (possibilmente un professionista a pagamento) che, lavorando gomito a gomito con te, aiuti a ottimizzare il testo. La sua caratteristica è l’esperienza, appunto, con i testi. Tanti, tantissimi. Sa individuare cosa nella stesura funziona e cosa no, e sa motivare il suo parere. Il suo operato ha una forte influenza sulla qualità della scrittura, come raccontava Anja De Jager: “aveva reso brillanti le mie parole e il mio linguaggio”.
La mia opinione è che ci sia bisogno di una sintonia speciale fra editor e autore. Se c’è stima, se c’è affiatamento, anche il suggerimento più fastidioso (“questo pezzo va interamente tagliato perché fa schifo”) viene preso in considerazione e metabolizzato con la massima obiettività possibile e riducendo al minimo le inevitabili resistenze emotive.
Ci sono editor autoritari, secondo i quali la loro parola è legge. Magari sono anche bravi, quindi alla fine ottengono un prodotto ottimo. Credo che in un percorso di apprendimento, quando un autore è all’inizio della sua carriera (e sa il cielo quando “l’inizio” può dirsi superato), sia giusto interagire anche con questo genere di editor e trarne comunque il meglio possibile. Sperando però che, più spesso, ci capitino gli editor complici e cordiali, quelli che del tuo lavoro vedono i difetti ma, soprattutto, intravedono le potenzialità e provano entusiasmo all’idea di tirarle fuori lavorando insieme a te, non sopra di te.
L’editor ti aiuta anche con altre cosucce: titolo, eventuale sottotitolo, sinossi, testo della quarta di copertina… insomma quegli elementi cosiddetti paratestuali che concorrono a dare una fisionomia al tuo libro e che serviranno per la composizione della copertina (vedi più avanti).
Ti propongo due link utili (in inglese). Il primo, dal blog di Joanna Penn, è un articolo di una editor che lavora per l’agenzia NY Book Editors (guarda il loro sito, hanno una pagina FAQ molto interessante) e che fornisce sette suggerimenti per un buon self-editing, a cui procedere subito prima di coinvolgere l’editor professionista, visto che alcuni controlli possiamo anche farli per conto nostro – o almeno provarci.
Il secondo, da The Write Life, è un articolo in cui Marian Schembari racconta come è venuta a contatto con quella che sarebbe poi divenuta la sua editor – persona, a quanto capisco, che si pone appunto come l’editor complice, fino al punto di chiedere alla cliente in che modo preferisce ricevere commenti e obiezioni (molto morbido, oppure silenzioso e inappellabile, oppure una via di mezzo) a seconda del suo carattere. Oltre a regalarci questa fantastica perla: “pretendere di editare il proprio lavoro da soli è come pretendere di leccarsi un gomito da soli”.
Ah, già, alla fine del post di domenica scorsa ti avevo promesso una partecipazione speciale di Keira Knightley. Eccola qua: la rappresentazione ultima del rapporto complice fra editor & autore, come lo vedo in un parallelo con musicista & produttore discografico. Cioè l’editor (o il produttore) come colui che sa immaginare le potenzialità e che ci mette dell’entusiasmo. Guarda con attenzione e fino in fondo questo video tratto da Tutto può cambiare (in originale Begin Again, 2013), un film delizioso con Keira Knightley e Mark Ruffalo, e goditi la sensazione sulla faccia di lui mentre immagina la loro musica.
(la parte interessante inizia a 1:50 – ci sarebbe un altro video di YouTube che parte dritto da dove ci interessa, ma il simpatico utente che lo ha caricato non vuole che sia condiviso su altri siti)
Proofreading = correzione di bozze = l’ago nel pagliaio. Il proofreader è un cane da tartufi che va alla ricerca del refuso, della concordanza sbagliata, della svista grammaticale, dello spazio doppio. Toglie le D eufoniche, le ripetizioni, le assonanze, le rime involontarie, le possibili ambiguità. Ti fa le pulci sulla punteggiatura fino allo sfinimento. Insomma intercetta ciò che ti è sfuggito nei passaggi precedenti e porta il testo vicino a quanto di più simile ci sia alla perfezione.
Considerata la quantità di simboli che un buon correttore deve saper usare, uno per ogni tipo di errore in cui è possibile imbattersi (e quelli indicati nell’immagine sono solo una parte), è abbastanza evidente come si tratti di un lavoro specialistico, che non tutti sono in grado di svolgere. Prima di assoldare un correttore di bozze, magari trovato via internet su qualche sito di servizi editoriali, meglio chiedergli una paginetta di prova da cui capire il suo grado di abilità.
Copertina = il volto del libro. Quella cosa che un potenziale lettore/acquirente guarda per prima. Quella cosa da cui un potenziale lettore/acquirente giudica il libro, ti piaccia o no.
Vuoi avere una copertina ben fatta? Chiedi a un grafico professionista. Non si scappa. Uno che sia in grado di scegliere e combinare i seguenti elementi:
– formato
– immagine
– font* per il titolo
– font per il nome dell’autore
– font per il nome della serie (se c’è)
– logo dell’editore (o del servizio di self utilizzato)
– costina
– sfondo per quarta di copertina
– font per la quarta di copertina
– altri elementi paratestuali come prezzo, codice ISBN, biografia
(* N.B. Ogni volta che parlo genericamente di font, intendo forma, dimensione, colore, texture, più varie ed eventuali.)
Il tutto in modo che sia coerente con il genere e il contenuto del libro, che comunichi un’emozione, che colpisca lo sguardo, che si distingua dalle altre… insomma un mezzo miracolo. Ecco ad esempio la copertina realizzata da Newton Compton per Una famiglia quasi perfetta di Jane Shemilt (in originale Daughter, Penguin, agosto 2014) che è stata citata come ben riuscita da Babette Brown durante il seminario romano di tre settimane fa:
A questa copertina io aggiungo quelle, simili ma non uguali, della versione originale inglese e di quella americana (uscita nel marzo 2015 per William Morrow, divisione editoriale di HarperCollins):
Alcune considerazioni sparse, tanto per chiarire ulteriormente quanto c’è da lavorare su una cover.
Per cominciare, tutte e tre le edizioni hanno in comune la stessa immagine: un soprammobile che raffigura una casetta, completamente chiusa tranne che per una finestra da cui proviene una luce abbagliante, che impedisce di vedere all’interno. La porta è color rosso sangue, la casetta è appoggiata su un davanzale, lo sfondo è una finestra di vetro (chiusa) sulla quale scorrono gocce di pioggia. Il tutto mette addosso sensazioni di disagio e timore. Rispetto all’edizione originale, le altre due edizioni hanno modificato il titolo: nel caso degli USA aggiungendo un articolo, nel caso dell’Italia passando da una sola parola a quattro, il che comporta un ingombro ben diverso e una leggibilità ben diversa (soprattutto se pensiamo alle versioni thumbnail, quelle minuscole che compaiono sulle schermate degli store online). Quindi nuovo font, nuova dimensione, scelta del maiuscolo invece che del minuscolo. Nell’originale, la parola “daughter” era sottoposta a un effetto lente che la distorceva e la rendeva inquietante, effetto che nella versione americana e in quella italiana si è preferito non utilizzare. Nella versione inglese non hanno ritenuto necessario specificare che si tratta di un romanzo, nelle altre due sì. Nell’edizione inglese il marchio dell’editore sta in alto a destra (ed è un’immagine), in quella italiana in basso a sinistra (ed è una scritta + un’immagine), in quella americana è solo una scritta ma sta in quarta di copertina. Nella versione inglese ci sono ben quattro righe di citazione da un’altra scrittrice (tre per il testo, uno per il nome), in quella americana solo due, in quella italiana niente – suppongo perché un po’ il titolo non lasciava posto ad altro, un po’ da noi Tess Gerritsen non è un nome famoso, a meno che il lettore non sia (come me) uno spudorato fan di Rizzoli & Isles.
Si potrebbe andare avanti ancora. Il punto è: tanta roba. O sei tu stesso un grafico professionista oppure, tassativamente, assolda qualcun altro.
Ti segnalo due articoli fantastici sulle copertine, con vari esempi. Sono entrambi pubblicati su Written Word Media. Il primo riguarda i trend più evidenti per le copertine a seconda dei generi letterari, con dovizia di esempi (vai almeno a vedere, anche se non sai l’inglese: le copertine sfuocate per chiarire le dinamiche dei colori sono la fine del mondo); l’altro ne parla dal punto di vista della psicologia comportamentale, con solo due esempi ma significativi.
Periodicità = la frequenza con cui escono i tuoi libri.
Un conto è se hai in mente una cosa specifica che vuoi comunicare al mondo, una storia particolare che ti sembra il caso di diffondere, e allora pace. Scrivi il tuo libro, lo pubblichi (in un modo o nell’altro), lo promuovi e vedi cosa succede.
Se invece l’idea che hai in mente è serializzabile, questa è cosa buona e giusta. Un buon personaggio merita più di un’avventura, come pure una buona ambientazione. Se hai in mente più di una trama da sviluppare, ben venga: più libri di uno stesso autore si promuovono a vicenda, con le modalità che vedremo domenica prossima. Siccome però qui stiamo parlando della realizzazione del prodotto, ovvero della stesura del libro con tutto ciò che essa comporta (tempistiche, revisioni, ecc) il fattore periodicità mi sembra pertinente in questa sede. Anche Jane Friedman ne parlava in questo suo post come uno dei cinque fattori fondamentali dell’evoluzione che il modello “autore imprenditore” sta attraversando.
Più la periodicità è costante, meglio è. Un libro ogni sei mesi, un libro ogni otto, un libro all’anno. Quel che meglio si adatta al tuo ritmo di scrittura e alle altri fasi di cui devi occuparti. La regolarità è un segno di cortesia nei confronti del lettore, che sa quando e cosa aspettarsi da te.
Un esempio illustre: Bella Andre, autrice della serie bestseller I Sullivan, in questa intervista pubblicata su BookBub ha detto:
Mi sono resa conto di come le vendite siano salite di colpo per la mia serie sulla famiglia Sullivan dopo aver pubblicato il quinto libro della serie (If You Were Mine). […] All’inizio, avevo pianificato otto libri (per i Sullivan di San Francisco), ma arrivata al quinto libro è stato evidente che otto non sarebbero mai bastati! Ho pubblicato l’undicesimo libro della serie la settimana scorsa (It Must Be Your Love), che parla dei parenti dei Sullivan che vivono a Seattle. (l’intervista risale al novembre 2013, NdV)
[…]
Ho pubblicato quattro libri all’anno, nell’ultimo paio d’anni. La mia programmazione annuale prevede il tempo per fare la prima stesura di ogni libro, sottoporla ai miei beta-reader, rivedere il libro (sono fissata con le revisioni), passarlo all’editor, ai correttori di bozze e agli impaginatori, preparare le copertine, scrivere le descrizioni, infine metterli online. Per rispettare questo programma, devo scrivere fra le 2.500 e le 5.000 parole al giorno. Questa è la media che ho trovato essere giusta per me, con la quale posso davvero immergermi nella storia mentre la racconto e conservare il tempo di curare l’aspetto del business. Su ogni libro lavorano un ottimo editor e cinque correttori di bozze. Credo fermamente nella necessità che ciascun libro passi attraverso questi stadi di lavorazione perché voglio mantenere la promessa ai miei lettori di consegnare loro ogni volta un libro ottimo.
[…]
La periodicità regolare con cui pubblico significa avere sempre nuovi libri di cui parlare, sempre nuovi concorsi e giveaway per i miei “Sullifan”, sempre nuove copertine da svelare, estratti da pubblicare per il mio Street Team, eccetera.
Nota a margine: il discorso delle serie si collega intimamente a quello delle copertine. Libri di una stessa serie dovrebbero avere copertine “in serie” anch’esse, cioè dotate di elementi comuni, che le rendano subito riconoscibili in quanto parti di un gruppo. Come, ad esempio, i sette libri di Bella Andre nell’immagine sopra il suo intervento, oppure questi quattro della serie di Ava Lee scritti da Ian Hamilton:
Traduzioni = eventuali edizioni del tuo libro in altre lingue.
Al workshop romano del 17 ottobre, la traduttrice Lori Hetherington è stata chiara: se vuoi avere il tuo libro tradotto in un’altra lingua devi affidarti a un traduttore professionista e madrelingua della lingua di destinazione, non di quella di origine o di altre lingue ancora. Dal momento che un lavoro simile comporta per forza di cose un grosso investimento (qualche migliaio di euro, per intenderci), è bene sapere che non ha senso compiere uno sforzo del genere se non si è disposti a compierne poi un altro subito dopo: ovvero, un forte investimento in promozione. In particolare per la lingua inglese, è praticamente scontato che il tuo libro scompaia nel mare magnum di un mercato letteralmente invaso.
Fra i siti più noti, utili a trovare traduttori in varie lingue, segnalo ProZ e TranslatorCafè.
Ci sono alternative a un investimento economico che, comprensibilmente, può spaventarti?
Qualcuna sì. Questo però è un argomento su cui non ho letto moltissimo, quindi mi limito a qualche indicazione veloce, che puoi approfondire in autonomia.
BabelCube. È una comunità di traduttori in una decina di lingue, con il seguente funzionamento: ci si iscrive al sito, si invia il testo che si vorrebbe far tradurre, si attende che alcuni traduttori si rendano disponibili e li si sottopone a una prova sulle prime 10 pagine. Se la prova è soddisfacente (cosa che l’autore dovrà verificare con i mezzi a sua disposizione), il traduttore procede e completa il libro, che a quel punto viene messo in vendita sugli store online a livello globale direttamente da BabelCube. Nessun pagamento a monte, si va solo a percentuali sul venduto, quindi in buona sostanza si condivide il rischio d’impresa. Questo implica che i traduttori che si offrono per il lavoro siano fiduciosi sulle possibilità di vendita del libro. In termini percentuali, più le vendite del libro sono alte, più guadagna l’autore e meno il traduttore. E viceversa, come spiega questa tabella:
Quindi: Compenso per il traduttore: da un minimo del 10% a un massimo del 55%. Compenso per l’autore: da un minimo del 30% a un massimo del 75%. Compenso per Babelcube: sempre il 15%.
Se ti interessa una testimonianza di prima mano con Babelcube, puoi leggere il resoconto dell’autore Jason Matthews che ha scritto tre post intitolati “My BabelCube Experience”: parte prima, parte seconda e parte terza. Naturalmente ci sono dei pro e dei contro – l’avresti mai detto?
Amazon Crossing. È il servizio di traduzione e pubblicazione di Amazon, riservato però a coloro il cui libro ha già ottenuto un considerevole successo di vendite nella sua lingua madre. O il team stesso di Amazon Crossing si propone agli autori che trova interessanti, oppure il singolo autore può candidare il proprio libro, compilando un form sul sito di Amazon e fornendo alcune informazioni. Loro vagliano le proposte e decidono se vale la pena investire nel libro. Nel caso, non bisogna pagare nulla: pensano loro a tradurre, pubblicare il libro e promuoverlo. Quanto alle condizioni contrattuali, ho trovato in rete una sola fonte al riguardo, in una conversazione su un forum, che parlava del 20% sul prezzo di vendita effettiva, considerando sconti, promozioni, ecc (quindi diverso dal prezzo di copertina) e di una cessione dei diritti della durata di 10 anni per la lingua in cui il libro viene tradotto. Un altro utente dello stesso forum segnala che il contratto non è negoziabile, un altro precisa che nel contratto si chiede di non diffondere i dati sui termini economici della questione (naturalmente conservo gli screenshot di tutto il thread, sia mai che sparisca misteriosamente). In questa intervista pubblicata sul blog Negli occhi e nel cuore, l’autrice self Rita Carla Francesca Monticelli specifica che, da parte di Amazon Crossing, è utile fare scouting fra i self-publisher in modo da non dover trattare con alcun intermediario e da ottenere per sé contratti vantaggiosi. Agli autori vengono corrisposte royalties più basse rispetto a quelle degli originali libri self-published ma, in compenso, Amazon mette sul prodotto finale un prezzo più alto rispetto a quello di partenza. Pagamenti a 60 giorni.
Per curiosità, puoi sapere qualcosa in più di Amazon Crossing mediante questa intervista ad Alessandra Tavella, acquisitions editor per Amazon Italia.
Fiberead. È un sito che in futuro si propone di offrire traduzioni in varie lingue, ma per adesso traduce da una sola lingua ad un’altra sola lingua. Sono due lingue importanti, però, le più parlate al mondo. Insomma Fiberead serve a tradurre dall’inglese al mandarino, ovvero prende il mondo della scrittura anglosassone e lo porta dritto in Cina. Provvedono loro anche a realizzare la cover per il libro in cinese e a piazzarlo, come ebook e/o cartaceo, dai vari retailer compreso Amazon China.
Se sei un autore che ha già pubblicato qualcosa in inglese, e in quanto tale è probabile che tu abbia già avuto buoni riscontri di vendita fin dall’uscita del tuo libro in italiano, un’occhiata a Fiberead potresti darla. Nessun pagamento a monte, anche qui si procede a royalties: l’autore prende il 30%.
[Postilla personale: Sto facendo tradurre in inglese alcuni dei miei racconti. Con quale sistema?
Come per tanti altri argomenti, spesso sono circostanze occasionali a guidarci. Da un paio d’anni vado a lezione da Ann, insegnante e traduttrice di madrelingua inglese, per tenermi in allenamento con la conversazione: avendone quindi testato competenze e attitudine, ho affidato a lei le traduzioni (anche perché ormai ci conosciamo bene, andiamo d’accordo e mi fa un buon prezzo). Hilda, la mia spietata beta-reader, è una lettrice fanatica di romanzi fantasy americani, che legge rigorosamente in lingua originale. Quindi Hilda legge tutte le traduzioni di Ann (dopo che comunque Ann ed io già le abbiamo rilette e revisionate mille volte) e trova sempre qualche passaggio che le suona legnoso, qualche espressione in cui si capisce che è un testo tradotto dall’italiano. Così Ann ed io facciamo una nuova revisione basandoci sulle sue osservazioni. Successivamente, il tutto viene letto anche da Alexandra, una mia cara amica canadese, che trova ulteriori dettagli da sistemare.
Durante il Women’s Fiction Festival di Matera ho approfittato della presenza di Athina Papa, titolare di un’agenzia di traduzioni, per chiederle se questo processo (che ho adottato andando per tentativi) è troppo macchinoso. Lei mi ha detto di no, anzi mi ha suggerito se possibile di trovare un ulteriore beta-reader, Nord-Americano, perché di lingue inglesi al mondo se ne parlano parecchie (britannico, australiano, canadese, americano con varie differenze da una zona all’altra…) e quindi è opportuno insistere con diverse letture fino a trovare quel tipo di inglese che suona spontaneo e naturale per lettori di diversa estrazione geografica.
Fine della postilla personale.]
PREZZO
Attribuire il giusto prezzo è un momento importante per qualunque prodotto debba, si spera, essere acquistato da qualcuno. Proprio l’altra sera leggevo, su un gruppo Facebook, l’intervento di un’autrice che trova inopportuno mettere in vendita un ebook a più di 1,99 euro. Un’altra le rispondeva che un prezzo così basso svilisce il suo lavoro e quindi lei mette in vendita il suo libro a 5,99 euro: piuttosto che venderlo a poco dando così l’impressione di non credere nel suo testo, preferisce non venderlo affatto. La scelta è puramente personale, eppure qualche linea guida può almeno essere vagliata. Ecco cinque possibili modalità di pricing (non sto a specificare se nei vari esempi si parla di dollari o euro, il concetto non cambia).
Metodo Windwalker = quello proposto da Steven Windwalker, com’è presentato in questo post del blog di Joanna Penn. Vendere a 99 centesimi almeno il primo libro di una serie in modo da attirare i lettori, gli altri a qualcosa in più (2,99 oppure 3,99).
Metodo Penn = quello di J.F. Penn (che sarebbe sempre Joanna Penn, ma con il nome che usa come scrittrice di thriller invece che come guru del self-publishing). Primo libro della serie, gratis. Gli altri, a pagamento a 2,99.
Metodo Smith = quello di Dean Wesley Smith, secondo cui il prezzo di un ebook va deciso a partire da un paragone con quello che sarebbe il prezzo dello stesso libro se fosse cartaceo, in modo che da un lato l’ebook risulti appetibile perché consente un risparmio rispetto al cartaceo, dall’altro lato non sembri “svenduto” e quindi di scarsa qualità. Più specificamente, il prezzo dell’ebook dovrebbe essere, per un romanzo sulle 80.000 parole, poco meno della metà del prezzo del cartaceo. Esempio: cartaceo a 17,99 ed ebook a 7,99. Invece, per una raccolta di racconti intorno alle 20.000 parole complessive, il discorso si rovescia e l’ebook dovrebbe costare qualcosina in più, rispetto alla metà del prezzo del cartaceo, in modo da non finire in una gamma di prezzo troppo basso e squalificante. Esempio: cartaceo a 7,99 e digitale a 4,99. Il ragionamento in teoria fila, anche perché è supportato da una quantità impressionante di calcoli che ti suggerisco di leggere sul post originale, ma il risultato sembra un po’ troppo ottimista per chi sta muovendo i primi passi nel mondo del self-publishing e deve farsi conoscere.
Metodo Konrath/Casey/Newland: prevedere (in modo un po’ più elaborato e più modesto di Wesley Smith) una correlazione fra lunghezza del testo e prezzo, come suggeriscono Jon Konrath, Ryan Casey e Tahlia Newland, con i seguenti esiti leggermente diversi fra loro:
Konrath: 3,99 per i romanzi – 2,99 per le novelle e raccolte di racconti – 0,99 per singoli racconti.
Casey: come Konrath, ma prezzando a 4,99 i romanzi se sono dei sequel, perché hanno già potuto contare sul traino del primo romanzo della serie.
Newland: 4,99 o anche 5,99 sopra le 85.000 parole – 3.99 fra le 60.000 e le 85.000 parole – 2,99 per i romanzi brevi (fra le 30.000 e le 60.000 parole) – 1,99 per le novelle e le raccolte di racconti (fra le 15.000 e le 30.000 parole) – 0,99 per singoli racconti (sotto le 15.000 parole). Nel caso di un romanzo lungo che però è il primo di una serie, conviene prezzarlo a 3.99 anche se supera le 85.000 parole, in modo che faccia da gancio e da traino per i successivi regolarmente prezzati.
[N.B. I post da cui ho tratto queste informazioni non sono recentissimi, ma controllando i prezzi dei libri in vendita di questi autori ho verificato che i suggerimenti sono ancora validi.]
Metodo Mofidi/Marano = quello proposto da Camille Mofidi e Diego Marano, rispettivamente European Manager e UK Manager di KWL (Kobo Writing Life) e indirizzati in particolar modo agli esordienti che devono districarsi in una giungla molto popolata. Nell’intervista pubblicata sul blog di Babette Brown, Camille Mofidi suggerisce:
Gli autori dovrebbero fare riferimento ai libri che si trovano nella stessa categoria del proprio libro sul negozio Kobo e scoprire la fascia di prezzo a cui vengono venduti; questo darà loro un’idea del prezzo corretto per l’ebook che intendono vendere.
Diego Marano, relatore al workshop milanese Ewwa sul self-publishing, è entrato ancor più nel dettaglio con una “ricetta” che qui cerco di elaborare. Scegliere un certo numero di ebook già pubblicati su Kobo e inseriti nella stessa categoria del nostro libro; per ciascun libro scelto, dividere il prezzo per il numero di pagine, in modo da avere il prezzo di ogni singola pagina; fare una media fra i risultati ottenuti in modo da avere il prezzo medio di una pagina; moltiplicare quel prezzo medio per il numero di pagine del nostro libro. Otteniamo così un prezzo ideale per il libro, che possiamo simboleggiare così: X,YY. Arrotondare per eccesso a X,99 se YY>49. Arrotondare per difetto a (X-1),99 se YY<49.
Per esempio, se il prezzo del nostro ipotetico libro viene 3,25 arrotondiamo per difetto scendendo a 2,99. Se il prezzo viene 3,68 arrotondiamo per eccesso arrivando a 3,99. Insomma devi armarti di calcolatrice e fare due conti.
Se poi ti interessa anche un’altra serie di link, riassunti e disegnini su posizionamento e promozione, torna su questo blog fra una settimana e ci prendiamo un tè virtuale.