Self-Publishing for dummies – Workshop 11
Sabato 17 ottobre ho passato la giornata a Roma per partecipare a questo workshop:
Un po’ perché, come ti dicevo qualche tempo fa, mi piace sempre andare a scuola. E un po’ perché, se dopo una serie di ragionamenti dovessi decidere che il self-publishing fa al caso mio, voglio essere ben informata. Funziona anche al contrario: proprio alla luce delle informazioni acquisite durante questo e altri workshop, potrei decidere se il self-publishing fa al caso mio. Scegliere la strada del lupo solitario non è cosa da prendere alla leggera.
Se vuoi sapere cosa è stato detto durante il workshop, ti rimando ai reportage pubblicati sul blog di Sabrina Grementieri e sul sito Cronache Letterarie redatto da Tiziana Zita. Qui vorrei partire da alcuni dei concetti esposti al workshop e ampliare il discorso mediante altre fonti e qualche riflessione mia. Inizierei citando una bella rubrica di recente inaugurazione, intitolata “Happy self-publishing”, redatta da Cristina Arnaboldi sul sito Il piacere di scrivere. Le prime due puntate di questa rubrica sono dedicate una a 5 motivi per non fare self-publishing e l’altra a 5 motivi per fare self-publishing.
Per come la vedo io, alcuni dei motivi elencati nel primo articolo non vanno considerati discriminanti per l’una o l’altra modalità di pubblicazione. Di concorrenza ce n’è a montagne in entrambi i casi (vuoi sugli scaffali delle librerie, fisiche e virtuali, vuoi nelle cassette della posta di editori e agenti). La possibilità di scrivere e null’altro non esiste più: un editore curerà le faccende di sua competenza (editing, correzione bozze, packaging) e un po’ di promozione, ma da lì in poi tutto ricade nuovamente sulle spalle dell’autore che non può semplicemente sedersi in un angolino a vedere cosa succede, bensì deve attivarsi per tenere viva l’attenzione di potenziali lettori e acquirenti. Diventare ricchi è quasi del tutto impossibile con entrambe le modalità. Evitare critiche è del tutto impossibile con entrambe le modalità (chi si autopubblica viene spesso guardato con sospetto, chi viene pubblicato da un editore viene spesso guardato con invidia – entrambi questi sentimenti non depongono a favore di una critica obiettiva).
Anche sulla velocità di pubblicazione, menzionata nel secondo articolo, ci andrei con i piedi di piombo. Autopubblicarsi elimina, questo è vero, i mesi passati nell’attesa di un riscontro da un potenziale editore. Non elimina, o quantomeno non dovrebbe eliminare, il tempo che serve a lasciar decantare il testo, a sottoporlo a editing e correzione di bozze, a confezionarlo per bene con copertina, grafica, prezzo eccetera. E anche in questo caso può trattarsi di mesi.
Credo però anche io che il grande pregio del self-publishing risieda al 90% nella possibilità di controllare ogni aspetto della propria opera. Quantomeno, anche se non si fa tutto da soli, nella possibilità di scegliere la propria squadra di lavoro appurandone la compatibilità con noi stessi. Non perché i nostri collaboratori debbano essere accondiscendenti o teneri con noi scribacchini, darci sempre ragione, farci sentire dei geni più o meno incompresi. Semplicemente perché con noi devono, appunto, fare squadra. Trovare un difficile equilibrio fra severità e rispetto, pignoleria e complicità.
[smaccato spot pubblicitario 1: personalmente, sono convinta che la mia squadra (al momento composta da Roberta, Hilda, Elena, Afterlaughs e Ann, come puoi leggere nel menù a sinistra di questa pagina) soddisfi questa esigenza, ma per confrontare questa mia convinzione con dei risultati servirà del tempo. Per adesso apprezzo il loro modo di spingermi, più o meno consapevolmente, a non accontentarmi mai – Hilda in particolare sembra che ci provi un gusto sadico, a bastonarmi.]
L’altro pregio che riconosco al self-publishing è di natura economica. In parte (A) puramente contabile e in parte (B) legata al mercato specifico del libro che si vuole pubblicare.
(A) – Aspetto contabile.
L’editore medio tradizionale ti passa dal 7% al 10% (circa) del prezzo di copertina (prima del calcolo dell’iva) su ogni copia venduta. Se sei un autore famoso (vuoi per meriti letterari, vuoi per altre ragioni) o se hai scritto un libro che incontra un enorme successo ci può stare, perché si suppone che tu venda uno sfracasso di copie e quindi, su un volume così abbondante, anche con un misero 10% ti porti a casa la paghetta. Ma se, più probabilmente, sei un autore che vende qualche migliaio di copie, allora quel 10% suona ridicolo.
Obiezione: l’editore però ti garantisce una visibilità superiore a quella del libri autopubblicati, un po’ per via del suo marchio, un po’ perché manda le copie cartacee fisicamente nelle librerie. Quindi su ogni singola copia non guadagni granché, ma almeno vendi più copie di quante ne venderesti da self.
Contro-obiezione: per quanto tempo?
A meno che tu non ricada nelle due categorie sopracitate (nome famoso e/o autore di un libro che funziona straordinariamente bene), dopo un mesetto al massimo il tuo volume sparisce dalle librerie. Al contrario, la disponibilità di un libro autopubblicato è eterna, a meno che non sia tu a volerlo togliere dagli store online.
Quindi: se vendi un quantitativo piccolo/medio di copie (quasi certamente in un lasso di tempo molto superiore, questo sì, a quello che impiegheresti in libreria), autopubblicare ti mette in tasca più soldi. Se poi sei veramente bravo e scrivi un libro che vende come il pane, a maggior ragione guadagni davvero bene – e alla soddisfazione economica si aggiunge quella di aver fatto tutto da solo o quasi.
Segnalazione importante: sull’argomento royalties, percentuali, guadagno medio e via dicendo, c’è un sito serio e dettagliato, http://authorearnings.com/. Attenzione: è in inglese, fa riferimento quasi esclusivamente al mercato USA e non è di facile lettura. Però merita, oh se merita. Considera solo che nei primi tre giorni di vita, appena si è sparsa la voce di quanto dettagliate e attendibili fossero le sue statistiche, ha avuto qualcosa come 50.000 visite tutte insieme e il server è saltato.
(B) Aspetto legato al mercato.
Introduco il discorso con queste parole che un’autrice americana ha pubblicato su un gruppo Facebook di scrittrici (traduco liberamente, togliendo nomi e titoli, per rispetto alla sua privacy):
Mi sento un po’ frustrata. Il mio agente, che è bravissimo e lavora per una grossa agenzia di New York, negli ultimi cinque mesi ha proposto in giro il mio primo romanzo.
Per ora, tutti i feedback sono stati positivi. Ecco cosa dicono gli editor:
“Ho apprezzato il suo approccio al tema. Scrive splendidamente e sa il fatto suo.”
“Mi piace molto il suo stile, e poi la sua protagonista ti convince proprio a fare il tifo per lei…”
“La sua scrittura è scorrevole e coinvolgente, oltre a dare la sensazione che lei abbia le idee chiare. I dialoghi sono brillanti e la protagonista è una donna forte, di carattere. Tutti questi elementi conducono a una splendida esperienza di lettura.”
Ce ne sono altri, sempre su questa linea. Il concetto è che tutti hanno amato il libro. Quindi perché nessuno lo vuole?
Gli editori hanno il timore di non riuscire a trovare il mercato giusto per questo romanzo. Il mio agente sospetta che gli editor non diano abbastanza credito ai lettori e alla loro capacità di apprezzare personaggi nuovi e diversi dal solito.
Io sospetto che il fatto che io sia una donna, e che la mia protagonista sia una donna in un thriller stracolmo di azione (un genere tipicamente maschile) rappresenti un problema.
Quindi, niente, sto solo sfogando un po’ di frustrazione.
Ecco: mercato.
Posso capire i timori di un editore: visto il continuo turn-over di volumi nelle librerie e visto il tempo limitato a disposizione per arrivare agli acquirenti, avere per le mani un libro con un target difficile, che avrebbe bisogno di essere corteggiato, individuato e coltivato, diventa un problema. Si rischia di sprecare un mucchio di tempo (risorsa scarsa e preziosa) per raggiungere un obiettivo modesto, che non giustifica l’investimento.
Forse, in casi come questo, il self-publishing funzionerebbe meglio. Tempi più dilatati, coinvolgimento diretto dell’autore, incentivazione di un passaparola finalizzato a individuare il target giusto.
Ricordo un fenomeno che a volte si è verificato nell’editoria a fumetti, settore nel quale ho lavorato per anni. Serie che per un grosso editore non erano più sostenibili, in quanto il venduto non copriva più le spese di una struttura mastodontica, erano invece appetibili per piccoli editori che sopravvivevano agevolmente anche con margini di guadagno più modesti. Volumi cartonati, destinati al mercato librario, che per il grosso editore non giustificano lo sforzo (lui campa con i grossi numeri del venduto da edicola), sono un tesoro per editori che invece puntano proprio le librerie di varia e le fumetterie. Insomma: lo stesso prodotto può non essere interessante in un determinato contesto ed essere invece prezioso in un contesto diverso. Che potrebbe anche essere l’autopubblicazione. E se penso a quanti progetti di storie a fumetti stanno partendo in questi mesi grazie al crowdfunding, oh se ci penso…
Meglio smettere di pensarci: torniamo indietro. Faccio un esempio che mi riguarda, per proseguire il ragionamento su un caso concreto che conosco bene.
Dunque, la sorte vuole che io stia scrivendo un (grosso) romanzo fantasy…
[smaccato spot pubblicitario 2: puoi farti un’idea di ambientazione e atmosfera leggendo i racconti targati “The Silent Force Universe”, che puoi scaricare gratuitamente da questa pagina del sito]
…ovvero il tipo di libro da cui in questo momento editor e case editrici fuggono come lepri urlando “Elì Elì, lamà sabactani”. Nonostante l’esistenza di un blockbuster come Il trono di spade, nonostante il continuo rinnovamento di interesse nei confronti di questo titolo grazie alla serie tv della HBO, nonostante sia in arrivo un altro serial prodotto da MTV e tratto dalla saga di Shannara di Terry Brooks, i fantasy “buoni” in questo momento pare siano gli urban e i paranormal (e pure loro non si sentono troppo bene).
(lo so, questo video non c’entra col discorso, ma un po’ di entusiasmo televisivo concedetemelo)
Il mese scorso, a Matera, ho addirittura scoperto che uno storico, leggendario editore di fantasy e fantascienza ha completamente cambiato indirizzo, abolendo (per ora) questi generi dalle new entry del suo catalogo. Abolendo! Mantiene solo titoli che ha acquisito in passato, ma non accetta titoli nuovi. Ci sono rimasta di sale. La gentilissima editor con cui ho parlato mi spiegava che troppe volte avevano opzionato un titolo valido, speso tempo e risorse sulla sua lavorazione, dall’editing alla copertina, per poi annunciarlo e ottenere, dai feedback dei librai, sì e no un totale di 1500 ordinazioni. A quel punto dovevano lasciar perdere tutto perché, rispetto alla loro struttura e ai loro budget, mandare in stampa 1500 copie nemmeno conviene.
Ma, penso io: se per quel libro esistono 1500 lettori, e se uno ha tutto il tempo del mondo per andarseli a cercare uno ad uno, allora perché non autopubblicarlo, il libro? Come la serie a fumetti che non ha più alcun senso per il mastodontico editore, ma ne ha moltissimo per un editore di nicchia (ce ne sono alcuni che dei loro volumi stampano meno di 1000 copie). E magari, ancora più senso per un autore che fa tutto da solo. Io ci metterei la firma anche subito, su una vendita di 1500 copie, fosse pure spalmata su più anni. Ho una storia da raccontare, qualcosa a cui tengo: l’idea che potrebbe essere letta da 1500 persone, che potrei far sapere a m-i-l-l-e-c-i-n-q-u-e-c-e-n-t-o persone una cosa (secondo me) importante, non è affatto da buttare via.
Come ulteriore spunto di riflessione, metterei sul piatto gli scrittori che dall’editoria tradizionale sono passati al self-publishing. Alcuni di loro sono nominati in questo articolo dell’Huffington Post. È interessante notare che, nonostante le motivazioni economiche abbiamo – giustamente – un loro peso, spesso e volentieri la scelta di queste persone è dettata da ragioni di altra natura. Divergenze di opinione con gli editori; il desiderio di sperimentare strade narrative nuove senza la pressione degli editori che volevano “fossilizzarli” sui generi che garantivano un ritorno; l’emozione di buttarsi in un’avventura che mettesse insieme l’aspetto creativo e quello imprenditoriale; la delusione nel vedere il proprio libro scarsamente promosso dagli editori; la necessità di ripubblicare vecchi titoli non più disponibili e la cui cessione dei diritti era scaduta; l’ambizione di mettere in piedi la propria micro casa editrice. È come se il loro cervello fosse entrato in una modalità multitasking, probabilmente stressante ma ricca di stimoli e soddisfazioni.
C’è quindi anche un aspetto estremamente personale nella scelta del self-publishing, qualcosa di difficile da analizzare o da ricondurre a concetti razionali e numerici. Leggi ad esempio questo intervento di un’altra autrice americana che è passata dall’editoria tradizionale al self (anche qui per discrezione e privacy non pubblico la copertina di cui parla, ma mi pare che il discorso fili lo stesso).
Ecco un’illustrazione che spiega come mai ho scelto la strada indie dopo il mio primo romanzo. È una tipica illustrazione da thriller, per un romanzo che in realtà non rientra nei canoni del thriller. Il titolo, fin troppo generico, non l’ho scelto io. Vedete quelle ombre sul terreno? Sono tutte di figure maschili. L’immagine è stata realizzata per rientrare in degli stereotipi, quando l’intero romanzo vuole rovesciare gli stereotipi. Io ho lavorato nell’analisi antiterrorismo, un campo largamente popolato da donne nella CIA. L’unico compromesso che ho ottenuto è stato l’aggiunta delle orecchiette da coniglio al simbolo dell’aquila americana, che è un accenno all’umorismo e alla rottura degli schemi presente nel romanzo.
Anche nel testo ho dovuto accettare compromessi che non mi hanno soddisfatta. Non fraintendetemi, sono stata onorata all’idea di pubblicare con un grosso editore e avere belle recensioni, soprattutto quelle del Washington Post. Questo romanzo tuttora vende meglio, rispetto ai successivi che ho autopubblicato. Alcuni dei miei amici scrittori, quelli più altezzosi, lo chiamano il mio “vero” romanzo – suppongo che questo renda immaginari i romanzi indie? Ad ogni modo, ho deciso che alla mia età sono stanca di accettare compromessi. Desidero che il volto che mostro al mondo, rughe e tutto quanto, sia il mio. Questo per dire che la decisione di essere autori self oppure no dovrebbe essere fatta per ragioni personali (i vostri obiettivi, i vostri talenti, le fasi della vostra vita) e non basata sugli stereotipi che accompagnano il mondo indie e il mondo dell’editoria tradizionale.
Lo ammetto, vedo dei limiti negli argomenti di questa signora. Ha dovuto accettare dei compromessi, ma ha anche ottenuto dei risultati (ottime recensioni, vendite migliori rispetto a quelle degli altri libri). E onestamente non so se mettere delle orecchiette da coniglio all’aquila americana sia un’idea tanto brillante. Tuttavia, lei ne fa una questione di coerenza. Se ti parlo di donne nella CIA e voglio rovesciare degli stereotipi, e tu editore mi piazzi una copertina con le ombre di quattro uomini e un titolo che parla genericamente di spionaggio, davvero stai solo pensando a un discorso di posizionamento e vendite, senza nemmeno provare a trovare un’altra strada che, pur non essendo nociva alle vendite, sia al contempo più rispettosa dei contenuti del testo.
Avere a cuore la coerenza tra il contenuto del proprio libro e il modo in cui si presenta ai lettori non mi sembra un peccato capitale. E capisco che, per una persona non più giovane, scendere a compromessi sia fastidioso. È una circostanza strettamente personale ma gli autori sono persone, ciascuno con le proprie circostanze e particolarità. Se sono una vegetariana convinta, non voglio una copertina in cui un uomo mangia una bistecca. Se ho scritto una storia su una gravidanza interrotta, non mi interessa una bandella che punta l’attenzione sulle gioie della maternità. Se ho scritto un heroic fantasy femminista (ripetete con me: “oh, spirito di Marion Zimmer Bradley, veglia su Velma”), la presenza fra i comprimari di un soldato belloccio che ha una storia con una delle protagoniste non autorizza l’editore a mettere in copertina un figaccione fantasy da calendario.
A meno che la priorità assoluta non sia vendere, vendere e nient’altro che vendere. Cosa che a un editore può capitare: soprattutto in un periodo di crisi nera, quando hai dei dipendenti il cui lavoro è appeso a un filo, quando sei pieno di debiti e ti tieni a galla per il rotto della cuffia in attesa di tempi migliori. Credo che questo gli autori lo capiscano e lo rispettino, ma non siano obbligati a condividerlo o ad accettarlo se hanno valutato un’alternativa accettabile rispetto ai loro obiettivi.
In una parola, self-publishing significa spesso e volentieri libertà.
Un concetto talmente seducente e sfaccettato che te ne parlerò domenica prossima, nella seconda puntata delle mie elucubrazioni.