Ritorno a casa
“Ritorno a casa”, per dire la verità, è un titolo inesatto rispetto alla clausura forzata cui siamo costretti per via del Coronavirus: non è che siamo tornati a casa, è proprio che dobbiamo rimanerci. Quello a cui stavo pensando, però, è come questa faccenda mi stia cucendo addosso uno status mentale nel quale non mi ero mai riconosciuta: quello di sentirmi a mio agio nel tornare a prassi consolidate, ad abitudini un tempo abbandonate e ora tornate a circondarmi ma, soprattutto, a darmi un senso di familiarità e di sicurezza (che a volte, per inciso, mette a nudo un po’ troppe vecchie faccende).
Per esempio, l’orario e le dinamiche del pranzo.
In condizioni normali, dal lunedì al venerdì io pranzo o da sola o insieme a Mini-Velma. Questo perché Tecno-Velmo mangia sempre alla mensa dell’azienda, e Mini-Velma lunedì, martedì e giovedì mangia a scuola. Inoltre, il lunedì e il martedì alle 14:00 io ho sempre lezione di tennis, il che vuol dire che devo mangiare, un paio d’ore prima, qualcosa di veramente basico che fornisca energia ma senza rimanermi sullo stomaco né provocare picchi glicemici che compromettano il rendimento in campo: morale, mangio un panino integrale con un po’ di marmellata, e al limite integro con un po’ di yogurt e/o di frutta dopo essere tornata a casa, avere fatto la doccia, messo a posto la sacca, eccetera.
Quindi, malissimo che vada, a parte i weekend devo preparare il pranzo solo per due e difficilmente vado oltre il canonico piatto di pasta (in bianco o al sugo) perché Mini-Velma ha dei gusti alimentari piuttosto limitati, e le cose che secondo i suoi standard sono fuori dal comune (ad esempio cous cous, zuppe di legumi, ecc) le mangia a scuola. Insomma una pacchia, per chi come me detesta cucinare.
Adesso, però, Tecno-Velmo lavora da casa e stacca alle 14:00. Mini-Velma ovviamente non va a scuola, quindi ci regoliamo sugli orari di Tecno-Velmo e mangiamo verso le 14:15; come succedeva quando io abitavo a Roma, uscivo dal liceo alle 13:30, tra pezzi a piedi e pezzi in autobus arrivavo a casa verso le 14:00 e intorno a quell’ora rincasava pure mio padre dall’ufficio (mia sorella niente, perché in quel periodo viveva a Pisa). Mia madre, cuoca e casalinga professionista, per quell’ora metteva in tavola megapranzi completi di primo secondo contorno dolce frutta caffè e ammazzacaffè, roba che se lo fai oggi ti denunciano per istigazione al diabete. Insomma, a parte il discorso meramente quantitativo, ora io mi trovo nella condizione di mia madre: preparare qualcosa di diverso tutti i santi giorni, per tre persone, intorno alle 14:00 o poco più. Situazione che dovrebbe farmi imbizzarrire, eppure evidentemente mi riporta a quel periodo della mia vita (in cui ero molto, ma MOLTO felice) e mi fa sentire… non so, come se stessi tornando a casa dopo un lungo viaggio.
Idem la sera. Normalmente, due sere a settimana Tecno-Velmo non c’è perché va agli allenamenti di ping-pong; un’altra sera a settimana, io non ci sono perché o vado al cinema con la cine-socia Hilda, oppure mi concedo una partitella a tennis con la sparring partner Juliana; qualche volta, faccio entrambe le cose e quindi mi assento per due sere. Mini-Velma diciamo che c’è praticamente sempre, a meno che non venga invitata a cena dalla famiglia di qualche amica. Quindi, in una settimana standard, siamo tutti insieme per cena e dopocena solo tre o quattro giorni su sette.
Adesso di sera siamo sempre tutti insieme, tranne per il fatto che a volte, dopo cena, Mini-Velma si ritira in camera sua a disegnare sul tablet (detto “il pepone”, per uno di quei casi di lessico familiare che affondano le sue radici al tempo in cui era piccola e stava imparando a parlare). Anche questo mi ricorda di quando vivevo a Roma e dopo cena si stava tutti su poltrone e divano a guardare un film o un varietà del sabato sera, e anche questo mi risveglia una sensazione di ritorno a casa.
Poi, beh, c’è un terzo meccanismo a cui ricorro, in modo istintivo, cercando qualcosa che mi richiami tempi migliori (sempre di quelli in cui ero MOLTO felice) e mi infonda fiducia nel mondo attraverso l’immaginazione – quel genere di cosuccia che, che per quanto sembri stucchevole dirlo, alla lunga il mondo può plasmarlo. Tradotto, leggo montagne di fumetti e non solo mi godo le storie (spesso scritte da autori a me molto cari come Bendis, Brubaker, Winick, Claremont, Whedon, Loeb, e disegnate da mostri sacri come Davis, Hitch, Finch, Coipel, Epting, Lee…) ma sento riaccendersi neuroni che non lavoravano da tempo: quelli che mi fanno notare un dettaglio, collegare due elementi in apparenza separati, scovare un tema nascosto, individuare delle particolarità nel montaggio delle tavole… insomma quei neuroni da cui so ancora estrarre analisi fumettistiche degne di questo nome e svelare i meccanismi che da quelle pagine scritte e disegnate fanno nascere una specie di magia (ed è un termine che non uso spesso). Accomodarmi sul divano o nel letto circondata da albi e volumi, oppure salire in mansarda per tirare fuori collezioni intere che aspettavano di essere lette, per qualche istante mi fa sentire ingenuamente, ma volentieri, al sicuro.
Come fossi tornata a casa.