Letture di Gennaio 2023
Le letture di questo gennaio sono iniziate a spron battuto, complice la prima settimana del mese che rientrava fra le vacanze natalizie, per proseguire poi a un ritmo più tradizionale e infine per arenarsi nella seconda metà del mese, quando tutta la mia attenzione è stata assorbita da faccende di famiglia.
Sul fronte fantasy e fantascienza mi sono dedicata a Il portale degli obelischi di N.K. Jemisin (vedi questo post), ovvero il seguito di La quinta stagione (vedi quest’altro post), entrambi editi da Mondadori, e a La fuga del robot selvatico di Peter Brown (vedi questo post), anch’esso un sequel, nello specifico de Il robot selvatico (ne avevo parlato in questo post insieme ad altre letture). Per la rubrica “librini” mi sono buttata sul noir e ho scelto un racconto lungo di Carlo Lucarelli, dal titolo Lupo mannaro (ed. Einaudi) di cui ho parlato in questo post.
E le altre letture? Anzitutto un romanzo che tenevo in libreria da decenni e che finalmente ho affrontato: Sostiene Pereira di Antonio Tabucchi (ed. Feltrinelli). Non so perché avessi sempre nutrito il timore di avvicinarmi a questo testo, ma sono felicissima di averlo superato perché è stata un’esperienza illuminante per contenuto, stile, emozioni. È straordinaria la capacità dell’autore di generare empatia con il protagonista, questo ometto in apparenza così anonimo, rassegnato, deciso a rimanere nei confini di un’esistenza scialba e a rimanere vivo solo nei ricordi degli anni passati e della moglie prematuramente scomparsa. Perfino il suo modo di mangiare riflette questa apatia, ed è bellissimo vedere che, nel momento in cui per varie ragioni (legate al suo prendere le distanze dalla dittatura salazarista in Portogallo) torna a essere attivo e partecipe in qualcosa, una fra le prime conseguenze di questa sua ritrovata vitalità sia andare a fare la spesa e cucinare. Tabucchi ha mescolato in modo credibile e delicato la tragica Storia del mondo con la piccola storia di un modesto caporedattore, in cui tanti di noi possono riconoscersi. E poi c’è questo uso sapientissimo del discorso indiretto libero che ti entra dentro e ti fa venire voglia di provarlo mezzo minuto dopo che hai chiuso il libro. Insomma un’esperienza di lettura fenomenale.
Altrettanto fenomenale, ma per ragioni diverse, è stato venire a contatto con la scrittura di Colette (sì, quella dei libri di Claudine, sì, quella del film con Kiera Knightley), della quale ho letto un insieme di scritti raccolti sotto il titolo Le ore lunghe: 1914-1917 (Del Vecchio Editore). Durante la Grande Guerra, Colette si sposta in giro per la Francia e, in un secondo momento, anche per l’Italia, in parte per non stare troppo lontana dal marito che è nell’esercito, in parte appunto per scrivere questi brevi reportage riguardanti la vita delle persone che non si trovano certamente in prima linea ma che risentono della guerra: nella loro vita quotidiana, nella difficoltà degli approvvigionamenti, nei discorsi più o meno vacui che tengono lontani i pensieri tristi; a volte, perfino nella superficialità con cui argomenti di estrema gravità vengono percepiti da chi ha la fortuna di non vedere i lati più cruenti del conflitto e continua ad averne una visione romantica e idealista. Colette sa descrivere questa specie di tempo sospeso, questa attesa in cui si ritrovano (e a volte si crogiolano) le spose degli ufficiali, i bambini, gli uomini anziani che cercano di mandare avanti la baracca. Una guerra-non-guerra che fa rabbrividire proprio per questa sua minacciosa inconsistenza.
A questo punto sentivo il bisogno di staccare un po’ la spina e di divertirmi, e voilà un chick-lit scattante come Una blogger in corriera, di Ledra (self-published). È uno di quei romanzi che parlano un po’ anche di se stessi: la protagonista è un’appassionata di libri romance e deve recarsi a Vienna per una convention di narrativa di genere, ma in tutto ciò finisce per conoscere un tizio che sulle prime detesta con tutto il cuore (ricambiata) e alla fine invece la conquisterà, insomma il classico enemies to lovers. Per inciso, ultimamente me ne sono capitati tre abbastanza vicini, di libri che seguono questo schema: spero che la serie si interrompa, perché vorrei passare a qualcosa di diverso. Nel frattempo, mi sono goduta la leggerezza di questa storia, che mi ha divertita e mi ha fatto venir voglia di visitare Vienna: peccato per alcune ripetizioni davvero insistite, per qualche volgarità gratuita (anch’essa ripetuta) e per la mancanza di un editing più “cattivo” (lo so, lo so, è il mio solito ritornello, trovo sempre la frase legnosa o la parola fuori posto, ormai la mia è una situazione cronica).
Il libraio di Kabul, della giornalista svedese Åsne Seierstad (ed. Rizzoli), è uno di quei libri contemporanei che si sentono nominare spesso: non ancora giunti alla consacrazione di “classici” ma conosciuti e diffusi, insomma di quelli che incuriosiscono. Figuriamoci poi oggi, con tutto quello che sta succedendo in Iran e con le conseguenze che potrebbero (speriamo) esserci in Afghanistan. Ho quindi recuperato questo volume ed è stata una lettura illuminante non solo per i suoi contenuti ma anche per il modo in cui essi vengono narrati. Si parla in sostanza della vita quotidiana di Sultan Khan e della sua famiglia. Lui è un afghano colto e appassionato del suo lavoro, uno che con guerre e cambi di regime ha avuto la sua parte di guai; ma anche un uomo radicato nella cultura e nelle abitudini del suo paese, e che di conseguenza si comporta in modi che noi riteniamo inammissibili (soprattutto per quanto riguarda il trattamento riservato alle donne). Questi modi stonano con la sua cultura, il suo amore per i libri e i pericoli affrontati per salvaguardarli, e ci rendono il protagonista allo stesso tempo stimabile e detestabile. Brava l’autrice a raccontare le vicende di tutti i membri della famiglia senza imporre più di tanto il suo sguardo, ma semplicemente riportando (e un po’ romanzando) i fatti. Tocca a noi decidere quanto lasciarci indignare da questo resoconto e quanto sentirci vicini alle donne di questo paese, succubi di un fondamentalismo da trogloditi.
Infine, un’incursione nel genere del romanzo storico grazie a I Medici. Una dinastia al potere (Newton Compton Editori), primo volume della tetralogia di Matteo Strukul dedicata appunto alla famiglia medicea. Che dire: molto scorrevole e con dei guizzi interessanti, ma nel complesso non posso dire che mi abbia fatta impazzire. Soprattutto dal punto di vista stilistico mi aspettavo qualcosa di più elaborato, forse più letterario… invece ho avuto l’impressione di una scrittura piatta, tutta tesa a raccontare la storia senza soffermarsi su un vero lavoro di cesello. C’è poi qualche infodump di troppo e, più in generale, la tendenza a spiegare sentimenti e caratteri dei personaggi, mentre io con le spiegazioni non ho un buon rapporto, preferisco provvedere per conto mio alle dovute inferenze. Mi piace il fatto che nella trama ci sia un forte elemento corale, mi sono piaciuti abbastanza i due villain (anche se la “coincidenza” principale che li collega è un po’ tirata per i capelli) e sono affascinata, credo come tutti, dall’ambientazione della Firenze rinascimentale; vedrò se tornare in biblioteca a prendere anche i volumi successivi.