Letture di Dicembre 2021
Come sempre succede a fine anno, le mie letture accelerano per recuperare gli inevitabili ritardi nella mia lista, che parte ambiziosissima e poi deve fare i conti con la realtà. Meno male che ci sono le vacanze! Ad ogni modo, poco ma sicuro, il bottino di dicembre è alquanto eterogeneo.
Iniziamo con Un cigno selvatico, di Michael Cunningham (ed. La Nave di Teseo) uno di quegli autori che ti mostrano la differenza fra chi fa letteratura e chi si limita a intrattenere. Il mondo è pieno di libri e racconti che trattano le fiabe classiche in chiave realistica, disillusa, horror eccetera. Cunningham però lo fa con una spietatezza e al tempo stesso con una raffinatezza, una capacità di toccare corde profonde, che lasciano spiazzati. Commuove affrontando personaggi che nella tradizione sono cattivi, spaventa rivisitandone altri che siamo soliti amare, inquieta lasciandoci nel dubbio su altri ancora, che forse andavano tenuti alla larga invece che vicini nell’infondata speranza di un lieto fine. Il tutto con una prosa semplice e accattivante, quasi fiabesca (per l’appunto), che contribuisce allo scarto fra ciò che è già noto e ciò che, con un po’ di timore, andiamo a scoprire. Il libro sceglie dieci fiabe, da La Bella e la Bestia a Hansel e Gretel, da Rapunzel a Biancaneve: dopo questa lettura, volenti e nolenti non le percepiamo più come prima.
L’eterno marito è stato il mio primo contatto con Fëdor Dostoevskij (l’ho letto nella collana “Assonanze” dell’editore SE): da tempo ho intenzione di affrontare i grandi romanzi russi, e prima di tentare con quelli più ciclopici sto tastando il terreno. Devo dire che con questo romanzo breve non è andata affatto male: sebbene la trama sia un po’ esile, e chiaramente non segua gli schemi a cui oggi siamo abituati, mette in scena due personaggi abbastanza assurdi in cui è facile riconoscere atteggiamenti e idiosincrasie comuni. In particolare ho trovato significativo il personaggio di Pavel Pàvlovič, che è appunto “l’eterno marito” a cui fa riferimento il titolo. Un uomo che, rimasto vedovo, perde completamente il controllo e la coscienza di sé, diventa uno sbandato, non è più in grado di combinare nulla: non perché fosse perdutamente innamorato della moglie, ma perché si sente integro solo se è sposato, se è conforme alla sua intima idea che un uomo della sua età nella società russa del suo tempo deve essere accasato, da solo “non funziona”. La sua ricerca di una nuova moglie è quasi patetica e mette in ombra l’altro protagonista, Velč’àninov, che finisce per diventare più che altro un testimone oculare della fissazione di Pàvlovič, con le sue conseguenze talvolta ridicole e talvolta tragiche.
Ben più recente è Se i gatti scomparissero dal mondo di Genki Kawamura (Einaudi), un libro di cui avevo sentito molto parlare ma che non mi ha entusiasmata. Mi è piaciuta l’idea centrale della storia, il classico patto col diavolo che si porta dietro esiti inaspettati e aiuta a prendere coscienza di sé e delle giuste priorità; e anche questa sorta di realismo magico giapponese, che si inserisce in un contesto in apparenza molto prosaico, è gradevole. Mi è parso però che il testo sia scritto in un modo sempliciotto, troppo aderente al parlato comune, quasi come se i dialoghi fossero tratti da un fumetto, pieni di versi e interiezioni che in prosa non funzionano più di tanto; d’altra parte, anche molti dei riferimenti sociali e culturali citati nel libro sono manga, anime, film (e Kawamura nel mondo della produzione cinematografica ci lavora). Ci ho sentito dell’autoreferenzialità, personaggi che la vita sembrano leggerla o vederla su uno schermo, più che viverla di persona.
Dall’America alla Russia, al Giappone, e infine al Cile: con Oltre l’inverno di Isabel Allende (che mi è stato regalato nell’edizione Mondolibri su licenza Feltrinelli) mi sono trovata in una strana mescolanza di romanzo storico, intimista e thriller, in un buon equilibrio fra di loro. Non posso dire di averla trovata una lettura trascinante, di quelle che non riesci a interrompere; anche perché, per l’appunto, la parte thriller deve lasciare spazio al resto e come filo conduttore è labile. Eppure ho seguito volentieri i continui salti nello spazio e nel tempo, dagli Stati Uniti al Guatemala al Cile, in un intrico di tragedie familiari che rende simili personaggi in teoria diversissimi fra di loro. Alla fine, ciò che conta non è distinguere tra colpevoli e innocenti, ma far emergere una solidarietà umana per nulla scontata.
Narrativa del fantastico, niente? Certo che sì, però a quei libri preferisco dedicare dei post singoli. Ho già scritto del Problema dei tre corpi di Cixin Liu e delle Lettere da Babbo Natale di Tolkien, scriverò prossimamente del Mangiapeccati di Mala Spina e di The Goblin Emperor di Katherine Addison.
Per concludere questo post, invece, parliamo di due “distopici realistici”, cioè che collocano le loro storie in ambientazioni di sicuro distopiche, ma senza elementi fantastici, insomma niente apocalissi zombie né mostri né alieni. Solo persone, nude e crude. Il primo è Il Signore delle Mosche di William Golding (ed. Mondadori): un gruppo di ragazzini, naufragati sulla classica isola deserta, devono riuscire a sopravvivere in attesa dei soccorsi che sa il cielo quando arriveranno. La narrazione non insiste su come sopravvivere: l’isola offre acqua e cibo almeno per qualche mese, e anche il clima non è ostile. Il punto è che, secondo Golding, degli esseri umani, strappati alle loro abitudini e alle leggi che la civiltà ha costruito nel corso dei secoli, sono destinati a tornare rapidamente a uno stato di illogica barbarie. Il desiderio di primeggiare, la sete di sangue, la prepotenza ai danni dei più deboli attendono solo il momento buono per emergere. In appendice a questa edizione c’è un intervento dell’autore stesso che spiega alcune scelte narrative e specifica alcuni dettagli: molto, ma molto interessante.
Paradossalmente, ho idea che l’approccio di Cormac McCarthy nel suo La strada (ed. Einaudi) sia esattamente opposto: in un’ambientazione mille volte peggiore, dove si possono trascorrere giorni senza trovare un grammo di cibo o una goccia d’acqua, dove la superficie del pianeta è cosparsa di vento, polvere e cenere, dove l’istinto di sopravvivenza spinge tante persone a cedere a istinti brutali e animaleschi, un padre e un figlio cercano di sopravvivere facendo tutto ciò che è in loro potere per rimanere “i buoni”. Il loro viaggio sembra non finire e mai e non cambiare mai, le tappe intermedie e le piccole novità che i due ogni tanto incontrano sono solo pause in un cammino sfiancante; ma la loro determinazione a non oltrepassare il limite fa la differenza (quasi sempre) e magari, solo magari, non saranno gli unici ad aver deciso che forse, nonostante tutto, si può restare umani. Una lettura che fa pensare tanto.