La casa di Chef – Dentro il racconto
“La casa di Chef” è un racconto non breve, ma brevissimo, di Raymond Carver, contenuto nella celebre raccolta Cattedrale. Carver è uno di quegli autori che al giorno d’oggi non si possono ignorare, ma con cui ho sempre fatto una gran fatica. Non perché mi dispiaccia il suo stile, ma perché stento a trovare interesse nelle storie “umane, troppo umane” e nelle situazioni prosaiche in cui ama indulgere. Talvolta, anzi, nei suoi racconti individuo un filo di crudeltà, di angoscia da cui sento di voler fuggire. E “La casa di Chef” mette addosso un tipo specifico di angoscia: quella del non-detto.
Attenzione, da qui in poi ci sono moltissimi spoiler: non procedere con la lettura se ti danno fastidio.
La storia parla di un breve periodo in cui la vita di un ex-alcolizzato sembra trovare un equilibrio. Wes, ospitato quasi gratis in una casa di proprietà dell’amico Chef, chiama la ex-moglie Edna: sostiene di essere tornato in carreggiata e le chiede di raggiungerlo in questa casa. Lei è scettica, visti i precedenti, ma lo accontenta e i due trascorrono diverso tempo insieme, una specie di lunga vacanza durante la quale fanno passeggiate, vanno a pescare, ammirano il mare e il paesaggio della California. Tutto cambia, però, quando Chef li informa che di lì a poco la casa non sarà più disponibile e Wes dovrà cercarsi un altro posto dove stare. Da lì in poi, nonostante gli impacciati tentativi di Edna di mettere le cose sotto una luce comunque positiva, Wes viene avvolto da una cappa di rassegnazione. I due parlano ancora per un po’: dei figli che mantengono le distanze, dell’impossibilità di essere diversi da quel che si è. Il racconto si conclude con Edna che prepara la cena, ripulendo la ghiacciaia del poco pesce rimasto, “così sarà tutto finito”.
La cosa pazzesca del racconto è che, dopo la notizia portata da Chef (notizia non buona ma, in teoria, nemmeno tragica o inaffrontabile), né Wes né Edna fanno alcunché di particolare. Nessun litigio furibondo, nessun comportamento sopra le righe, nessuna reazione inconsulta. Tuttavia l’atteggiamento di Wes, lo sguardo perso fuori dalla finestra, verso un mare su cui si ammassano simbolici banchi di nuvole, le parole vuote di Edna, i piccoli gesti, tutto mette il lettore nella condizione di capire perfettamente cosa succederà nel giro di poco tempo. Carver non dice nulla eppure è ovvio, è chiarissimo dove vuole arrivare: la parentesi felice è finita, un evento in apparenza minore come la necessità di cambiare casa ha fatto uscire Wes dalla bolla in cui si era rifugiato. Lui ripiomberà nella dipendenza dall’alcool, sta già recuperando qualche piccolo tic e qualche lungo silenzio di troppo; lei dovrà nuovamente lasciarlo.
C’è un profondo senso di ineluttabilità in queste pagine, che mostrano lo stretto necessario a non lasciare scampo alle deduzioni del lettore. E proprio perché il lettore capisce da solo, il racconto termina con una chiosa spietata: “così sarà tutto finito”. Il patto fra autore e lettore trova la stretta di mano definitiva.
P.S. Questa che hai appena letto è un’analisi veloce, anzi nemmeno un’analisi, è più un puntare il dito sull’aspetto del racconto che mi ha maggiormente colpito, appunto quello del non-detto. Una trattazione ben più approfondita è disponibile a questo link e ti consiglio di leggerla da capo a fondo (sia per il suo valore intrinseco, sia per il principio a me caro secondo cui lo studio ha un influsso benefico sulla creatività).