Inverso: The Peripheral – Fantascienza
Inverso: The Peripheral è una miniserie di 8 episodi, prodotta da Prime Video e tratta dall’omonimo romanzo di William Gibson, uno dei padri del filone fantascientifico del cyberpunk.
L’idea alla base della storia è un curioso intreccio fra i tradizionali viaggi nel tempo, le ambientazioni post-apocalittiche (guerra, mista a cambiamento climatico, misto a epidemie, eccetera) e il trasferimento di dati da un supporto all’altro… con il dettaglio che, se il supporto di destinazione non è quello che ci si aspettava, allora i dati finiscono – per dirlo senza spoilerare – da un’altra parte. Anzi, direi che proprio questo specifico punto è quello più interessante dell’intera trama, e che mi fa venire una gran voglia di leggere il romanzo originale. In aggiunta, citerei un bel gruppo di comprimari che rendono la serie decisamente corale, come piace a me, anche se ovviamente il focus principale resta concentrato su tre o quattro personaggi.
Le prime puntate della miniserie, però, impiegano un po’ a carburare. Per carità, dopo la prima mezz’oretta si capisce già che le cose sono diverse da quello che sembrano inizialmente, e questo vale sia per la presentazione dei personaggi, sia per il significato e le connessioni fra gli eventi. Tuttavia, per molto tempo mi è rimasta addosso la sensazione che tutto sia stato organizzando seguendo in modo un po’ piatto il solito schema: protagonista riluttante, chiamata all’avventura, rifiuto iniziale, attraversamento (un po’ virtuale e un po’ reale) della soglia, primi ostacoli, aumento della posta in gioco eccetera (insomma le stesse cose che mi avevano dato fastidio in Black Panther: Wakanda Forever, come spiegavo in questo post). Per fortuna, dalla quarta/quinta puntata in poi gli intrecci si complicano e, anche se a uno sguardo più approfondito si può ancora individuare il suddetto schema, almeno è molto più mascherato e non mi ha disturbata più. Morale, ci ho messo diversi giorni per sfangare le prime quattro puntate, e uno per divorare le ultime quattro.
L’elemento che ho trovato molto accattivante fin dall’inizio è il worldbuilding della Londra futura (anch’essa un po’ virtuale e un po’ reale): a quartieri in rovina e zone in cui la vegetazione ha preso il sopravvento si alternano palazzi avveniristici, monumenti tradizionali (per esempio il Big Ben e il Tower Bridge) e, soprattutto, riproduzioni gigantesche di statue classiche o neoclassiche (credo di aver riconosciuto almeno la Nike di Samotracia, il Discobolo di Mirone, il David di Michelangelo e l’Apollo e Dafne di Bernini). Insomma a me bastava un panorama neo-londinese e già ero contenta.
Personaggi preferiti? Un paio di cattivi, direi, ovvero l’altolocata manager Cherise e il sicario irlandese Bob: sono cattivi di quelli che hanno delle ragioni per il loro comportamento e lo ritengono perfettamente accettabile in nome dei loro valori. Ho provato un senso di cameratismo per i reduci di guerra e per il vicesceriffo, la giusta dose di simpatia per la protagonista Flynne (interpretata da Chloë Grace Moretz, la quale ha un viso che sembra disegnato da Milo Manara) e una bella dose di noia per il suo “contraente” del futuro Wilfred, troppo ingessato e incerto. Zero empatia, infine (com’è giusto che sia), per i cattivi “fini a se stessi”, quelli che come unica ragione per la cattiveria hanno la sete di potere o l’irresistibile tendenza a fare gli sbruffoni e i prepotenti con chiunque gli attraversi la strada.
In definitiva: consigliabile? Sì, a patto di avere un po’ di pazienza all’inizio e di sorvolare su alcune soluzioni narrative troppo collaudate. Attendo la seconda stagione!