Intervista a Gaspare Burgio – Dentro il racconto 1
Premessa: avevo intenzione già da molto tempo di inserire sul blog, con cadenza mensile, una serie di interviste a persone che si dedicano alla scrittura e alla riflessione sulla scrittura stessa. Siccome però di interviste a scrittori se ne vedono a bizzeffe in giro, ho voluto cercare la chiave più adatta a me e l’ho trovata nella narrazione breve: quindi le mie interviste si concentreranno su racconti, al massimo racconti lunghi o romanzi brevi (molto brevi), mai su romanzi corposi. Mi interessano interviste che sezionino il materiale narrativo, e questo sistema credo possa condurre a risultati interessanti. Leggerò quindi un certo numero di racconti scritti da ciascun intervistato, ne trarrò qualche conclusione e ne parlerò con lui/lei.
Si comincia oggi con Gaspare Burgio, uno degli autori che ho avuto modo di conoscere per via della collaborazione a Buck e il Terremoto, volume collettivo del quale ti ho già parlato in questo post. Gaspare ha pubblicato diverse raccolte di racconti, le cui copertine corredano questa intervista, ed è uno di quegli autori che si dedicano alla scrittura con rara consapevolezza e maturità. In appena cinque risposte ad altrettante domande, sfiora o approfondisce concetti che, ne sono certa, troverai sfaccettati e stimolanti.
Nella tua biografia [riportata alla fine dell’intervista, NdV] chiarisci che prediligi la narrazione breve al romanzo. Sul tuo sito internet, sono disponibili raccolte di racconti. Come mai questa preferenza? È abbastanza insolita fra gli scrittori, pur vantando precedenti illustri: Carver, Munro, O’Connor…
Il mio prediligere storie brevi nasce dal fatto che sono una pessima persona. Davvero. Andavo al liceo con lo zaino vuoto, tanto non seguivo le lezioni, e mi isolavo all’ultimo banco leggendo quei cari libretti che si compravano in edicola. Raccolte antologiche di Urania. Millelire. Narrativa breve che poteva stare tutta nel comparto di una lezione noiosa, e che potevo nascondere facilmente. Un volume più grosso avrebbe attirato troppe attenzioni. Ero un lettore criminale.
Capirai che dal mio punto di vista è strano che migliaia di persone si spertichino nel cercare di forgiare il romanzo del secolo in meno di un mese, quando si possono fare cose grandiose con i racconti. Il romanzo, nella vita di una persona, non è un atto volontario, ma una conseguenza. Un riassunto che scappa dalle mani. Uno yogurt delle proprie banali esperienze. Non lo vuoi, ti capita e basta. Il racconto invece è l’arte applicata, c’è dietro l’intento nudo e crudo di intrattenere per parole. È molto più naturale di quanto non sia un romanzo. Frazioniamo le nostre vite in periodi brevi, giorni o settimane. Ci narriamo episodi. Gli amori sono stagioni. Ascoltiamo canzoni e seguiamo serie tv episodiche. Diamine, perfino il lavoro non è più altro che tempo determinato. Per me è naturale cercare la storia breve, ma compiuta. Contiene tutto, non esclude che il superfluo, e lascia il tempo di dedicarsi a cose più folli, come vivere. L’idea che qualcuno possa addormentarsi con il mio libro sulla faccia e russare disturbando i vicini di viaggio mi atterrisce.
In alcuni tuoi racconti individuo dei vocaboli e delle costruzioni desuete, come se cercassi volutamente uno stile che richiama alcuni grandi della letteratura italiana. Penso a Calvino, Cassola, Gadda, Collodi…
Non sei la sola a notarlo. Questo Calvino mi perseguita! Non voglio sembrare critico, ma odio (quindi sono critico) il modo di scrivere indefinito e semplificato che ci viene da contaminazioni anglofone. Per incredibile che sembri, la lingua scritta comune è diventata peggiore della lingua parlata. Ho anche un certo rifiuto del moderno, che vedo troppo transitorio. Non citerò mai una marca o un personaggio o uno show, perché lega lo scritto alla contingenza. Mi piace dare al tutto un certo senso di assoluto. Le forme desuete le ho volutamente cercate e inserite, come un’opera di recupero, attingendo a ciò che sentivo e sento tutt’ora dire intorno a me. Non sono desuete per il sottoscritto, insomma. Prendiamo il verbo «inverniciare». Perché ucciderlo? È tanto bello. Dobbiamo sacrificarlo al più plebeo «spalmare»? C’è chi ha notato che uso vocaboli del Boccaccio. Roba del Trecento! Va da sé che le stesse parole erano in uso a mio nonno solo vent’anni fa. Ho la fortuna di essere nato in un città dove ancora si parla bene. Da perfetto ignorante posso ringraziare solo questo, se talvolta me ne esco con delle espressioni vincenti.
Mi torna in mente Calvino, e anche un po’ Buzzati, quando penso a quanto siano surreali le tue storie. Anche “Due metri sopra” parte come un normale racconto di fantascienza, con tanto di frecciata sociale, e finisce con un tocco di irrealtà. È questa la molla della tua scrittura? Andare oltre le regole della verosimiglianza?
La molla della mia scrittura è duplice. In primo luogo cerco di stupire, vale a dire di applicare la disgiunzione più forte che io possa congegnare. Lo faccio affinché il lettore sia coinvolto, non è niente altro che un trucco di bassa lega. Per questo a volte mi affido alla science fiction o all’horror, dove questo si costruisce più facilmente. Quando mi riesce non ho alcuna paura di applicare questo modello di disgiunzione a contesti riconoscibili. Pertanto sì, nelle mie storie può capitare che di punto in bianco decidano di costruire le case trasparenti, e quindi tutti si comportino finalmente bene. È un modo piuttosto indiretto per mostrare alle persone quanto bello o articolato sia il loro mondo usuale, se solo avessero pena di contemplarlo invece di abusarne. È una seconda disgiunzione, più profonda. Alcuni riescono ad arrivarci.
In seconda analisi perché prendo la scrittura molto seriamente, cioè non la prendo affatto in considerazione. C’è una morale, almeno io vorrei mettercela o tentare di mettercela, in una produzione autoriale. Quello che tanti chiamano «avere una voce», che sarebbe la chiave del successo, si traduce in «scrivete come atto morale». Nel mio caso la morale è abbastanza facile. Naturalmente c’è chi campa considerando la scrittura come un oggetto da dare in pasto alle masse, tentando di sedurle. È un modo di dignitoso e onesto come altri di darsi uno stipendio. Non è quello che faccio, però. Non cerco di piacere, cerco di creare un oggetto narrativo funzionale. Per dirla con estrema sintesi: non ho mai sognato di diventare un romanziere e ancora non mi riesce sognarlo. Avrebbe più senso sognare di diventare medico o avvocato, se proprio ci si vuole legare a una carriera.
Parliamo un momento del progetto “Buck e il Terremoto”, che ci ha messi in contatto. I paletti al cui interno bisognava rimanere per partecipare erano tre: (1) lunghezza massima 1000 parole; (2) messaggio di amore e/o speranza; (3) temi quali lupi, cani, animali d’affezione, terremoto, rapporto uomo-natura, gesti di coraggio, storia e tradizioni delle zone colpite dal sisma. Come ti sei mosso in questo reticolo? Come si sono incastrate le idee per arrivare alla stesura del tuo racconto “Due metri sopra”?
Per un autore di racconti è propedeutico avere dei limiti. Ed è francamente utile avere degli spunti sui quali lavorare. Nella norma un autore (che ne sia conscio o meno) opera partendo dalla disgiunzione finale, quello che si potrebbe intendere «il colpo di scena», e da questo concetto procede a ritroso per ricostruire la premessa. Gli spunti possono aiutare nel processo di ideazione. C’erano almeno un lupo o cane, un evento sismico, qualcuno da salvare. In questo caso ho pensato qualcosa del genere: «Scriveranno tutti la solita storia del bambino sotto le macerie o dell’amicizia fra un lupo e un uomo. Rispettiamo le indicazioni, ma facciamo arrabbiare la maestra. Una storia di sopravvivenza nel luogo più pericoloso che esista. L’Universo. Ehi, posso farlo, non è mica vietato!». Ammetto di aver sogghignato, mi piace piegare le regole e svangarla lo stesso.
Nella prima stesura avevo scritto di un uomo che si ritira a vita privata e costruisce un proprio animale sintetico. Ti regalo l’incipit. «Finite le questioni della vita, Richardson si ritirò sul Monte X, dove sperava di trovare finalmente la pace, e qui costruì un altero-cane. Lo fece coi mezzi e le conoscenze che aveva a disposizione. Il lavoro lo impiegò per undici mesi, e andava in parallelo alla bonifica della proprietà. Non ci furono battute d’arresto, se non per il gelido inverno che impedì l’arrivo del treno coi materiali. Per due mesi almeno, Richardson si recò al rimessaggio e guardando quella sagoma di metallo scomposta si chiedeva se sarebbe mai riuscito a completarla. A maggio inoltrato, Necro gli saltellava intorno mentre compivano escursioni nella foresta di sempreverdi. Il corpo di metallo brunito, le zampe solide e svelte, i sensori sul naso calibrati tutti. Quando Richardson si sedeva su una pietra o una sporgenza per il riposo, Necro si disponeva in posizione di sovrallerta, scandagliando l’aria per captare odori. Al ritorno dalle escursioni, lo precedeva per assicurarsi sulla sicurezza del percorso.»
Come chiunque voglia leggere “Buck e il terremoto”, sai che la storia finale ha preso tutt’altra impostazione. Questo si dilungava troppo, inoltre finiva per essere simile a “La Preghiera” di Sheckley. Col progredire della carriera si impara a stralciare senza sensi di colpa, e così è stato. Ho preferito allora un incipit diretto in media res, che mi consentisse di articolare meglio il seguito ed equilibrare le varie parti.
Se devo indicare la maggiore difficoltà che ho avuto, è stata proprio quella dell’equilibrio. Dovevo inserire condizioni dinamiche (cioè fatti che avvenivano), sensazioni del personaggio, così da creare un minimo senso di immedesimazione, e far capire davvero un sacco di roba (come il fatto che la storia si svolge in un mondo alieno e una compagnia di estrazione sfrutta il territorio). Non sarebbe stato difficile avendo infinite parole, ma con un limite imposto ho dovuto lavorare sul singolo periodo fino a cercare espressioni sinonimo, guadagnare uno o due lemmi e aggiungerli dove serviva. Tutto questo mantenendo un ritmo narrativo coerente, zero infodump e tempistiche accettabili. Ho cercato cioè di dare vita a un oggetto narrativo compiuto con tutti i crismi. Sono abbastanza soddisfatto del risultato finale, credo che andrò a inserirlo con leggere modifiche in una nuova prossima antologia personale.
Questa è la domanda che tutti i miei ospiti di “Dentro il racconto” avranno l’onore e l’onere di sentirsi rivolgere. Ti fornisco dieci writing prompt menzionati in “Calliope”, un episodio del Sandman di Neil Gaiman. Se tu dovessi sceglierne uno da cui partire per un nuovo racconto, quale sceglieresti e perché? In quale direzione narrativa andresti?
1 – Una città dalle strade lastricate di tempo.
2 – Un treno carico di donne mute, che solca il tramonto per l’eternità.
3 – Teste di luce. Un pezzo di cartoncino azzurro. Una prugna, dolce, aspra e fredda. Un pesciolino mannaro che si trasforma in lupo al cospetto della luna piena.
4 – Due donne anziane che portano in vacanza una donnola.
5 – I grifoni non dovrebbero sposarsi. I vampiri non ballano.
6 – Un uomo che eredita una tessera della Biblioteca di Alessandria.
7 – Una pianta di rosa, un usignolo e un collare da cane di gomma nera.
8 – Un uomo che perde la testa per una bambola di carta.
9 – Il sole al tramonto sul Partenone, zuppa di denti di pescecane.
10 – Un vecchio che possiede l’universo e lo conserva in un barattolo di marmellata, nella credenza impolverata del sottoscala.
In pratica mi stai chiedendo: se tu potessi andare a letto con la moglie di Gaimann e tradire la tua compagna, su quale letto lo faresti? È molto più probabile che scriverei la storia di un’artista che si innamora alla follia di infiniti prompt, li raccoglie, e il giorno che finalmente visita il suo autore preferito costui gli dica: no, erano gli errori di battitura che gettavo fuori dalla finestra per la rabbia.
Fra tutti, preferisco comunque le due donne anziane che portano in vacanza la donnola. Le vecchie signore in viaggio combinano sempre un mucchio di guai e arrivano dove vogliono. Hanno esperienza e sono due, una compensa l’altra. Cercherei un dialogo frizzante, ci metterei un intrigo internazionale che le coinvolge loro malgrado e la soluzione sarebbe per loro insoddisfacente e grandiosa nel quadro globale. Ovviamente non lo scriverò mai. Non sono fedifrago. Magari Gaimann vorrà approfondire.
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Biografia essenziale di Gaspare Burgio.
Nato a Firenze, ma abitante un poco ovunque. Dopo un passato da comic artist, ha deciso di dedicarsi più alle parole che alle immagini, preferendo la narrazione breve al romanzo. Autore metropolitano, ha pubblicato antologie di racconti classici e di genere (SF, horror), nonché un numero di articoli su fanzine di settore. Predilige la sperimentazione e l’ironia. Divulga strategie di self publishing e web marketing ad uso di colleghi indie e nel tempo libero partecipa alla creazione di videogiochi di nicchia.
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