Dire troppo, dire troppo poco (terza parte)
Terza parte della riflessione partita con questo post e proseguita poi con quest’altro.
Dopo gli esempi di testi che, secondo la mia sensibilità di lettrice, esagerano nella quantità di informazioni che forniscono al lettore (a volte è solo una parola, a volte ben più), vorrei elencare tre esempi virtuosi di autori che, secondo me, dicono proprio quello che serve, né più né meno, lasciando al lettore il gradevole compito di riempire gli spazi vuoti e capire quel che c’è da capire.
Attenzione, da qui in poi ci sono degli spoiler GIGANTESCHI, nello specifico si parla di finali e di plot twist perché non era possibile fare altrimenti. Non procedere con la lettura se ti danno fastidio.
Esempio numero 1: Stephen King, uno che di tecnica della scrittura qualcosa ne capisce. Il primo libro di King che ho letto è stato Cell, che pare non sia fra i più famosi né fra i meglio riusciti; io l’avevo scelto solo perché, fra varie opzioni possibili, mi ero orientata su una trama che a occhio non mettesse troppa paura (io non reggo bene né libri né film dell’orrore, se mi colpiscono troppo non ci dormo la notte). Cell mette in scena una specie di apocalisse zombie causata da un segnale, detto Impulso, che viene trasmesso dai cellulari e fa regredire a uno stadio animale le persone che lo ascoltano; il protagonista è Clay, un padre che in mezzo a questa situazione deve fare un sacco di strada per ritrovare il figlio Johnny, ma quando lo trova scopre che anche lui è stato mutato. Clay forse ha trovato un sistema per guarirlo, ovvero sottoporlo di nuovo all’Impulso, seguendo una teoria secondo la quale il cervello di Johnny reagirebbe come un computer che viene spento e poi riacceso: potrebbe “resettarsi” sulle sue impostazioni originarie. Ci sono delle ragioni spiegate in precedenza per credere che possa funzionare, ma non delle certezze: anzi, arrivati alle ultime pagine del libro non solo non siamo certi che il sistema funzioni, ma c’è anche la possibilità che peggiori le cose.
La questione vera, però, non sta nella domanda se il sistema funzionerà oppure no, se Johnny guarirà oppure no. Questo è indipendente dalla volontà di Clay, non c’è nulla che lui possa fare per gestire o migliorare questa possibile cura; ma se il funzionamento della cura non è un elemento legato al protagonista, allora vuol dire che il focus della storia sta altrove. La ricerca di Johnny, come nelle migliori quest di formazione, ha cambiato Clay che, da uomo tutto sommato mite e poco propenso a prendere grandi decisioni, si è trasformato in una persona che ha compiuto diverse scelte, più o meno azzeccate, e deve ora compierne una decisiva: sottoporre Johnny oppure no alla cura? Mantenerlo in uno stato non troppo pericoloso ma sostanzialmente animalesco, oppure rischiare un’ulteriore mutazione?
Le palpebre di Johnny si stavano riabbassando. Clay gli diede un altro violento scossone per impedirgli di riaddormentarsi. Lo fece con la sinistra. Con il pollice della destra schiacciò il pulsante di chiamata. Ebbe il tempo di contare Mississippi UNO e Mississippi DUE prima che nel piccolo display illuminato la dicitura chiamata in corso cambiasse in connesso. Quando questo accadde, Clayton Riddel non si diede il tempo di pensare.
«Ehi, Johnny-Gee», disse, «fo-fo-te.» E premette il cellulare sull’orecchio del figlio.
E fine.
Funzionerà? Non funzionerà? Che importa. Per ottenere che l’attenzione del lettore andasse sul punto giusto (Clay ha preso LA decisione), King ha eliminato il contorno. Avrebbe potuto dirci cosa succedeva a Johnny, ha preferito eliminare il superfluo, senza quindi dire troppo. Less is more.
Esempio numero 2: un finale ancora più raffinato, quello de La variante di Lüneburg, il romanzo più noto di Paolo Maurensig, uscito nel 1993. La storia inizia con un imprenditore tedesco morto in circostanze misteriose e prosegue con un viaggio nel passato, affidato a voci diverse, nel quale si scopre come la sua vita si fosse intrecciata in modo tragico e malvagio con quella di un eccellente giocatore di scacchi ebreo che, durante la dominazione nazista della Germania, era stato deportato nel campo di concentramento di Berger Belsen. Dall’inizio si intuisce che il gioco degli scacchi aveva avuto un ruolo importante nel rapporto fra i due uomini e la storia lo ricostruisce poco alla volta. Leggendo, pezzo dopo pezzo, mettiamo insieme tutti i tasselli e ci aspettiamo un esplicito collegamento finale tra passato e presente, un cerchio che si chiude. Ma no, il finale rimane nel passato ed è affidata alla voce dell’ebreo:
Mentre, liberatomi infine dalla mia lercia divisa e indossati panni civili, puliti, senza alcun contrassegno infamante, mi allontanavo da Berger Belsen su un camion della Croce Rossa, capii che altrove, in una dimensione a me preclusa, si era giocata una partita a scacchi la cui posta e le cui perdite erano incalcolabili. Mi stupii che tutt’attorno la natura fosse rimasta indenne e indifferente, e che ci fosse ancora un maggio come quelli della mia infanzia. Per la prima volta il sole non era più offuscato dal fumo dei forni crematori e, tra le basse dune di sabbia, la brezza ravviava i radi cespugli di erica della landa di Lüneburg.
La chiusura del cerchio è solo implicita, e per giunta non è neppure univoca, arrivando a lasciare che sia il lettore a decidere come è morto l’imprenditore tedesco: l’emissario dell’uomo ebreo lo ha ucciso per vendetta, oppure l’imprenditore stesso, sapendo che il suo passato stava per raggiungerlo, si è suicidato? L’autore non lo dice: non è questo che importa, possiamo scegliere. Perché dire troppo? Di nuovo, less is more.
Esempio numero 3: “Bella bocca e occhi miei verdi”, una delle storie brevi di J.D. Salinger incluse nel volumetto Nove racconti pubblicato da Einaudi (lo stesso da cui è tratto il prodigioso “Un giorno perfetto per i pescibanana” di cui ti ho parlato in questo post).
Questo racconto è sostanzialmente la registrazione in presa diretta di una telefonata. C’è un uomo di nome Lee in una stanza d’albergo, è sdraiato sul letto insieme a una ragazza. L’uomo riceve una telefonata, dall’altra parte c’è un suo amico di nome Arthur, chiaramente ubriaco e molto nervoso, il quale inizia uno sproloquio interminabile sul fatto che sua moglie Joanie non si è ancora vista a casa. Arthur è sicuro che ci sia sotto qualcosa, pensa che lei si sia allontanata con delle persone di cui lui non si fida, senz’altro Joanie gli sta mettendo le corna e lui sta lì ad angosciarsi. Lee cerca di calmarlo, gli dà dei consigli paterni e assennati, ma Arthur è troppo agitato e troppo sbronzo per reggere una conversazione normale: continua a blaterare di Joanie, di come tenda a bere troppo e a tradirlo con chiunque. Durante l’intera telefonata, Lee ogni tanto osserva la ragazza che è insieme a lui: la vede recuperare un posacenere, raccogliere delle cose da terra, offrirgli una sigaretta eccetera. Quando Arthur dice a Lee che vorrebbe andare da lui di persona, Lee si schermisce, dice che non la trova una buona idea e riesce a chiudere la conversazione. La ragazza si complimenta per come ha gestito la situazione, l’idea che Arthur si presentasse lì la riempiva di ansia.
A questo punto, arriva questo passaggio:
Improvvisamente il telefono suonò.
L’uomo coi capelli grigi disse: – Cristo! – ma lo tirò su prima del secondo squillo. – Pronto? – Disse nel microfono.
– Lee? Stavi dormendo?
– No, no.
– Scusa sai, ma ho pensato che ti avrebbe fatto piacere saperlo. Joanie è arrivata adesso.
Ecco. E noi che per quattordici pagine filate ci siamo sorbiti gli sproloqui di Arthur pensando che si stese confidando proprio con il presunto amico che invece stava a letto con sua moglie. E invece no, la ragazza nel letto non era Joanie! Basta tornare indietro, pagina dopo pagina, per notare che la ragazza nel letto non è mai stata chiamata per nome. Salinger ci ha fatto credere che fosse Joanie solo grazie al suo modo di presentare la situazione e i dialoghi. La mia reazione, arrivata a quel punto, è stata una gran risata. Ho riso di me stessa perché ci ero cascata, perché pensavo di trovarmi con uno di quei racconti che si limitano a descrivere situazioni più o meno squallide della middle-class americana, e invece tac: c’era un plot twist gustosissimo perché cucinato a puntino, parola dopo parola. Anzi: proprio con quelle parole, misurate e collocate una alla volta, non una di più e non una di meno dello stretto necessario per ingannare chi legge: senza insistere sulla ragazza più del dovuto, senza farla reagire in modo eccessivo, solo qualche pennellata qua e là, nulla di superfluo o ridondante.
Pagherei oro per avere questa capacità di calcolo, chiamiamola, questa lucidità nell’individuare quanto dire e come dirlo. Ho iniziato questa serie di tre post sull’argomento “dire e non dire” citando fra le altre cose tre miei racconti nei quali ho affrontato l’argomento con tre esiti diversi, almeno in un caso ponendomi la domanda: “si capisce?”. Adesso me ne è venuto in mente un altro, un raccontino dal titolo “Vocazione” che avevo inviato anni fa a un concorso presso il quale aveva ottenuto una segnalazione di merito. È disponibile per la lettura sul sito del concorso stesso a questo link. La storia parla di un prete che racconta a un giovane soldato il motivo per cui ha deciso di fare il cappellano militare al seguito di truppe stanziate in alta montagna, fra crepacci, dirupi e freddo mortale. In sostanza il prete si porta dietro un senso di colpa, e raccontando la sua storia spiega cosa aveva fatto, perché, e come aveva deciso di redimersi. Ho pensato che raccontare tutto nei dettagli, proprio come una confessione, sarebbe suonato cronachistico e noioso, quindi ho eliminato giusto qual cosina, in modo da lasciare un minimo spazio di manovra al lettore, uno spazietto bianco da riempire. E tuttavia, anche se è solo uno spazietto, il timore che si possa anche non capire mi viene lo stesso. Magari un giorno ne verrò fuori.
P.S. Se poi nel frattempo tu volessi provare a leggere qualcosa e farmi sapere…