Dire troppo, dire troppo poco (seconda parte)
Seconda parte di una riflessione su quando, in un testo, succede che ci sia scritto troppo poco per una sua piena comprensione, o al contrario talmente tanto da far sentire il lettore trattato da sciocco (se vuoi seguire il ragionamento in modo più completo, v. la prima parte di questa riflessione). Inizio con qualche esempio minimo: passaggi di racconti o romanzi in cui secondo me si poteva essere più sintetici, perché il lettore può capire o dedurre da solo alcuni dettagli e non ha bisogno di essere accompagnato. E sì, farò dei nomi grossi, perché ormai sono talmente ipersensibile a questo tema da riscontrarlo ovunque, e di sicuro le mie paranoie nulla tolgono alla grandezza degli autori e delle autrici.
Esempio numero 1: J.K. Rowling. La creatrice di Harry Potter intesse trame complicate ed è giusto che, a un certo punto, ci siano momenti in cui si tirano le fila in maniera molto esplicita, quelli che si dicono anche “spiegoni”. Su di essi non ho nulla da obiettare. Mi infastidiscono invece una serie di ridondanze non a livello di struttura, ma di superficie: quante volte, anche nello stesso volume, ci viene detto che Severus Snape (cioè Piton) ha i capelli unti, o che il cugino Dudley ha gli occhi porcini? Okay la prima volta, okay la seconda volta se ritiene che serva un promemoria, ma poi basta, via. Altri elementi che trovo superflui sono, nei dialoghi, gli aggettivi finalizzati a chiarire lo stato d’animo del personaggio che parla.
Tipo: «Insomma, Ron, vuoi smetterla?» lo apostrofò Hermione stizzita. Oppure: «Promettimi che starai attenta» raccomandò Harry preoccupato.
Dopo battute come quelle (e considerati anche i contesti, che qui per ovvie ragioni di spazio non tratto), che Hermione fosse stizzita o che Harry fosse preoccupato mi pare di un’evidenza assoluta, anche per un pubblico giovane. Perché insistere in modo così pedante?
Esempio numero 2: James Patterson, celeberrimo scrittore di thriller e inventore dei Bookshots, una collana di novelle stampate in formato super-tascabile e super-economico per venire incontro ai lettori più frettolosi. Alcuni di questi bookshots sono stati tradotti anche in Italia, e fra questi ce n’è uno intitolato Non fidarti di nessuno. Vi si racconta la storia di una donna che durante un lungo tragitto in auto sfugge al tentato omicidio di tutta la sua famiglia e, lasciati al sicuro la bambina e il marito (che è ferito e non può muoversi), deve camminare fino alla città più vicina per chiedere aiuto e difendersi dal killer che la insegue. Alla fine, il malintenzionato viene preso di mira da una piccola folla che ha varie ragioni per avercela con lui. Una delle ultime scene recita:
Jed era bagnato di petrolio da capo a piedi […]. Uno degli uomini si mise a fissarlo, tirò fuori un accendino e lo fece scattare […], tenendo la fiamma in alto come una torcia. Jed tremava in preda al terrore. L’implicazione era spaventosa. Quelle persone avrebbero potuto bruciarlo vivo.
Ecco, io a leggere una cosa di questo tipo, come lettrice mi sento a disagio. Insomma, sarà un po’ improbabile non capire che Jed trema perché ha paura che il tizio gli dia fuoco. Davvero c’è chi non ci arriva? Non si poteva eliminare tutta la parte da “L’implicazione” a bruciarlo vivo”?
Esempio numero 3: un brano da Le tre bambine di Jane Corry, una signora inglese adorabile che ho conosciuto al festival di Matera e che sforna un best-seller dietro l’altro, solitamente thriller psicologici. La protagonista di questo romanzo è un’insegnante di arte che viene scelta dalla direzione di un carcere per fare lezione ai reclusi, e nei primi giorni deve imparare a destreggiarsi all’interno di un ambiente nuovo e insolito per lei. Nel quinto capitolo, assistiamo a questa scena:
Superiamo la fila di detenuti. Ora vedo che sono in piedi accanto a quella che, a prima vista, sembra la porta di una stalla. «Aspettano la posta» spiega brevemente la mia guida.
Uno degli uomini si allontana a testa bassa, con le mani vuote.
Provo quasi pena per lui.
Ma certo che la protagonista prova pena, tutti noi la proviamo insieme a lei. Arriva la posta, sono tutti in fila perché chiaramente non vedono l’ora, e poi l’attenzione si sposta su uno di loro che se ne va senza nemmeno una cartolina. Basta questo a suscitare un sentimento di compassione (pur sapendo che, se l’uomo sta lì dentro, non è uno stinco di santo): che bisogno c’è di scriverlo quando è ovvio, comprensibile e condivisibile? Perché precludere al lettore la possibilità e la soddisfazione di riempire uno spazio vuoto?
Ho scelto appositamente autori con la A maiuscola per insistere sul fatto che questi “eccessi di spiegazione” non sono peccati mortali bensì veniali, che possono capitare a tutti e con diversi effetti sul lettore, c’è senz’altro chi non ci fa nemmeno caso o, al contrario, chi ama essere tenuto per mano ad ogni passo. Io non mi sento a mio agio in questi casi, tu potresti pensarla come me oppure no.
Con la prossima puntata, tirerò fuori alcuni esempi che mi danno soddisfazione… e poi, con questo chiodo fisso del dire troppo o dire troppo poco, la finisco (almeno per un po’).