Dire troppo, dire troppo poco (prima parte)
Non so se ti è mai capitato di scrivere qualcosa e passare tutto il tempo (della stesura e delle revisioni) a chiederti ossessivamente: ho detto abbastanza? Ho detto troppo? Quell’equilibrio è, secondo me, uno degli elementi su cui si basano la riuscita di un testo e il rapporto con chi ti legge. Dici troppo poco? Il lettore non capisce la storia, o almeno non del tutto. Dici troppo? Il lettore si sente trattato come un cretino.
È probabile che io ne faccia un caso di stato, me ne rendo conto, anche per via della mia formazione basata su testi come Lector in fabula oppure Sei passeggiate nei boschi narrativi, entrambi di Umberto Eco, un autore che conosco meglio come semiologo che come romanziere. In questi saggi, si sostiene che ogni testo sia pieno di “spazi vuoti” che spetta al lettore riempire, utilizzando deduzioni, inferenze, la sua conoscenza del mondo. Come quando, ad esempio, ti raccontano una barzelletta: se ridi, tutto bene; se hai bisogno di fartela spiegare, o la barzelletta non funzionava oppure tu non eri l’interlocutore giusto per quella barzelletta perché non avevi le competenze necessarie a cogliere il sottinteso, lo spazio vuoto, lo “scarto” pensato per generare la risata. Come se uno raccontasse a un bambino di sei anni una storiella con un doppio senso erotico. O come se un romanzo che tratta temi e personaggi complessi, scritti in uno stile denso e con un vocabolario forbito, finisse in mano a un lettore con uno scarso bagaglio culturale. Ovvio che bisogna scegliere il proprio pubblico, e non si può sperare di essere comprensibili e/o gradevoli per tutti (esistono luminose eccezioni, ad esempio certi film della Pixar con diversi livelli di fruizione, adatti a spettatori di varie età e livelli culturali, cito Inside Out giusto per fare un esempio lampante). Ma una volta che quel pubblico lo hai scelto?
Anni fa ho scritto un racconto di cui ero molto soddisfatta: mi sembrava di aver calibrato a puntino ogni ingrediente, senza rivelare troppo in modo diretto e piuttosto lasciando ampi margini di manovra al lettore per afferrare lui il senso della storia e del finale. Invece, diverse persone a cui l’ho fatto leggere non ci hanno capito niente, l’hanno trovato strano, fumoso, tanta atmosfera ma poca sostanza. E anche dopo averglielo spiegato (proprio la sgradevole situazione della barzelletta non compresa), alcuni di loro hanno insistito: “no, impossibile capire, troppo criptico”. E non sto parlando di zotici lettori di primo pelo; sto parlando di gente che legge d’abitudine, o addirittura scrive, talvolta con successo. Adesso quella storia breve la chiamo sempre il Racconto Enigma, anche se ha un suo titolo.
Insomma è da quella volta che mi arrovello sull’argomento. Io personalmente tendo a non volere mai che mi venga detto troppo, non voglio spiegazioni superflue, preferisco sentirmi un po’ scema o ignorante (se non afferro dei concetti) piuttosto che sentirmi trattata come una scema o un’ignorante (se l’autore mi dice cose che avrei capito benissimo da sola). Ma come si fa a capire quando una spiegazione è superflua, e per chi? Ormai, ogni volta che mi diletto nella stesura di un racconto anche solo un pochettino più esigente (verso il lettore) del solito, arrivo in fondo chiedendomi: oddio, ma si capisce? Per esempio, prendiamo i tre racconti che si possono scaricare gratis qui, dal mio sito: Il cielo di Mairead ha un plot twist a metà strada, ma direi proprio che lo si coglie senza fatica; in Toby non c’è praticamente nulla da capire, bisogna solo seguire la storia e decidere se ti piace; ma Virale? Eeeeh, Virale mi pone dei problemi. Ci sono dei sottintesi, degli indizi che vanno ricollegati: i famosi “spazi bianchi” in carico al lettore. A me sembrano lampanti, però, sai com’è, mi erano sembrati lampanti anche quelli del Racconto Enigma (sul quale peraltro c’è ancora qualcosina da dire, ma non ora). Se non altro, nel caso di Virale, i responsi dei canonici 25 lettori sono stati più unanimi: a quanto mi dicono, si capisce.
Tutto questo per dire che non ho una soluzione, però ho raccolto qua e là esempi di testi (anche di autori famosi, per esempio J.K. Rowling oppure James Patterson) in cui, secondo me, si dice troppo, o troppo poco, o il giusto: non necessariamente ai fini della comprensione del testo intero, ma anche solo per la godibilità di un capoverso o di una scena. Ogni criterio può inoltre cambiare a seconda dell’ottica in cui ci si mette, della prospettiva con cui si affrontano romanzi e racconti, delle competenze del lettore. Io posso capire una cosa e tu no, o viceversa. Nessuna garanzia, nessuna regola fissa: però almeno qualche coordinata si potrebbe cercare di intuirla.
Fra qualche giorno inizio ad elencarteli. Per adesso… fine prima parte.